Canada

Interferenze cinesi,
stallo sull’inchiesta
Accuse e veleni in parlamento

TORONTO – È stallo politico sulla controversa vicenda delle interferenze straniere sul processo elettorale del nostro Paese. Le dimissioni annunciate venerdì scorso dal relatore speciale David Johnston (nella foto sopra), che secondo i partiti d’opposizione avrebbero dovuto fare chiarezza sulla tabella di marcia da seguire per arrivare alla verità, alla fine dei conti hanno avuto l’effetto opposto. Ci troviamo, in sostanza, in una sorta di impasse, di limbo istituzionale dove nessuna delle parti in causa vuole assumersi la responsabilità di fare la prossima mossa, con accuse reciproche che non fanno altro che aumentare il clima d’incertezza nelle stanze del potere.

Il ragionamento del governo sulla questione è abbastanza chiaro: con il passo indietro dell’ex governatore generale, le opposizioni hanno ottenuto quanto volevano. Non bisogna infatti dimenticare che la scorsa settimana una mozione non vincolante votata in blocco dai deputati del Partito Conservatore, dell’Ndp e del Bloc Quebecois chiedeva in modo specifico le dimissioni dell’ex governatore generale, un risultato raggiunto quindi. Spetta – e questo lo ha confermato il ministro per gli Affari intergovernativi Dominic LeBlanc – alle opposizioni trovare il suo sostituto nel delicato ruolo di relatore speciale sulle interferenze cinesi, indicare la tabella di marcia dei lavori e dare indicazioni sul come utilizzare i documenti considerati sensibili. Insomma, le opposizioni sono con le spalle al muro, anche perché lo stesso governo per la prima volta ha mostrato delle aperture sull’ipotesi – bocciata in precedenza dal primo ministro Justin Trudeau – di istituire un’inchiesta pubblica così come richiesto da tory e Ndp.

Pierre Poilievre domenica ha fatto la voce grossa, sottolineando come entro breve tempo avrebbe contattato Jagmeet Singh per decidere come procedere insieme. In realtà, come ha indicato lunedì sera lo stesso leader neodemocratico, quella telefonata non è mai arrivata e l’incontro non è stato ancora fissato.

Il problema, semmai, è nella tempistica, perché la prima esigenza è quella di trovare un sostituto per il dimissionario Johnston. Serve un nome autorevole e super partes, rispettato da tutti i partiti e che abbia esperienza in questo tipo di ruolo.

Poi, il nodo della potenziale inchiesta pubblica è legato anche alla road map del governo. Entro due settimane, infatti, si chiuderanno i lavori parlamentari, con le Camere che andranno in pausa estiva: impensabile quindi immaginare che i deputati possano continuare a lavorare anche durante l’estate su questa delicata questione.

Ma non solo. I problemi legati alla tempistica riguardano anche le scadenze che si vogliono dare all’inchiesta, se dovesse essere attivata.

La storia canadese ci insegna come i tempi per le inchieste pubbliche di questo tipo siano molto dilatati. Negli ultimi vent’anni la commissione d’inchiesta pubblica più breve è stata quella su Maher Arar, durata due anni e mezzo. In aggiunta ai lavori dell’inchiesta, deve poi esserci la presentazione delle raccomandazioni al governo e l’esecutivo deve quindi deve attivare quanto suggerito. Impensabile quindi che i lavori di una possibile inchiesta pubblica possano essere terminati entro la fine naturale di questa legislatura, prevista per l’autunno del 2025. Ci troveremmo quindi costretti a trascinarci questa vicenda per lungo tempo, con l’impossibilità di arrivare alla verità sulle ingerenze cinesi e con le porte aperte, quindi, per altre interferenze stranieri alle prossime elezioni.

Sia maggioranza che opposizioni si trovano quindi in una posizione scomoda, in una fase nella quale occorrerebbe collaborare con spirito bipartisan per il bene del Paese.

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