Opposizioni:
cade il primo leader,
altri due traballano

TORONTO – Cade la testa del primo leader dei partiti d’opposizione, mentre altri due traballano. Annamie Paul lunedì ha annunciato le proprie dimissioni, puntando il dito contro il clima intimidatorio che si era venuto a creare all’interno del Green Party ben prima delle ultime elezioni del 20 settembre.

Un clima che nei mesi precedenti al voto aveva preso le sembianze di una vera e propria faida interna, con epurazioni, accuse, veleni, espulsioni, minacce, ritorsioni e polemiche. La “divisione dell’atomo”, verrebbe da dire viste le dimensioni del partito, se non fosse che la querelle interna che ha spaccato i verdi è stata caratterizzata da tematiche serie, come quelle del razzismo, dell’intolleranza e del mancato rispetto dei diritti.

Da più parti il passo indietro della Paul è stato commentato come una sconfitta per tutto il Paese, non ancora “pronto e maturo nell’avere la prima leader di partito donna, di colore e di fede ebraica”. Ma è davvero così? La politica non si nutre solamente di ideali, confronti e proposte, ma anche e soprattutto di numeri. E quelli, per l’ormai ex leader ambientalista, sono davvero impietosi.

L’allora leader verde Elizabeth May aveva consegnato alla Paul le chiavi di un partito in salute, in costante ascesa e proiettato e bissare se non a superare i risultati del passato. Alle elezioni del 2019 il Green Party aveva raccolto la bellezza di 1.189.607 voti, pari al 6,55 per cento: un livello di consenso storico, mai raggiunto dal partito, con il numero dei voti raddoppiato rispetto alla consultazione elettorale del 2015 e con tre deputati eletti alla House of Commons. Alle elezioni di quest’anno i verdi hanno preso 398.021 voti pari al 2,3 per cento, con un calo percentuale di oltre 4 punti e con più di 790mila voti persi in meno di due anni.

Un disastro, aggiunto al fatto che la stessa Paul non è stata in grado di farsi eleggere – arrivando addirittura quarta nel distretto di Toronto Centre con appena 3.900 preferenze. Senza dimenticare che l’ex leader aveva già provato due volte ad entrare in parlamento – nel voto del 2019 e nelle suppletive del 2020 – venendo sempre bocciata dall’elettorato. Tre tentativi andati a vuoto in tre anni: se non è un record poco ci manca.

Pur senza ammetterlo, comunque, la Paul con le dimissioni si è presa sulle proprie spalle la responsabilità del tracollo del partito, e di questo bisogna darle atto. In politica, di solito, quando un leader di partito perde deve trarne le conseguenze e farsi da parte.

Questo, ovviamente, in linea teorica, perché poi nella realtà dei fatti molto spesso non accade. A volte la tentazione di rimanere attaccati alla poltrona è irresistibile, in altre è lo stesso partito a defenestrare il leader sconfitto alla prova delle urne.

Se la Paul è caduta, dicevamo, altri due leader dell’opposizione traballano. Due leader che per il momento, dopo la sconfitta al voto, hanno deciso di rimanere al loro posto, con grande gioia del primo ministro in pectore Justin Trudeau, aggiungiamo.

Erin O’Toole ha perso su tutti i fronti. Il suo tentativo di scalzare il leader liberare è stato bocciato dall’elettorato, così come la strategia di spostare il partito verso il centro moderato per conquistare più seggi nella GTA non solo non ha raggiunto l’obiettivo preposto, ma ha anche avuto l’effetto di scontentare l’elettorato delle Province dell’Ovest. Il meno 14 per cento registrato in Alberta – feudo conservatore – dimostra come il tentativo di O’Toole sia miseramente fallito. Eppure, il leader conservatore non se l’è sentita di recitare il mea culpa ed è rimasto al suo posto.

Una decisione, quella dell’ex ministro dei Veterani del governo Harper, che non è stata accolta con grande entusiasmo all’interno del suo partito.
La sconfitta alle urne ha creato, come sempre, spaccature e divisioni tra i conservatore e l’impossibilità di identificare in O’Toole l’immediato capro espiatorio non ha fatto altro che accentuare le frizioni tra le diverse anime della galassia conservatrice. A rendere ancora più irrespirabile l’aria attorno al leader e al suo entourage è stato anche il successo – in termini di voto popolare, non di seggi – per il partito di estrema destra, quel People’s Party di Maxime Bernier il cui exploit, secondo i numeri di Elections Canada, è costato ai conservatori ben 21 seggi federali. Si prospetta, come già accade all’indomani delle elezioni del 2019 con l’allora leader Andrew Scheer, una possibile rivolta interna contro O’Toole.

Il secondo leader che traballa è ovviamente Jagmeet Singh. In questo caso non stiamo parlando di un neofita. L’attuale leader neodemocratica ha in mano le redini del partito dal 2017, ha già guidato l’Ndp in due elezioni con risultati molto deludenti. Nel 2019 il partito conquistò 24 seggi (con il precedente leader Tom Mulcair ne aveva 44), in questa tornata elettorale ha eletto 25 deputati. Numeri impietosi: come sono lontani i tempi dell’ondata arancione del 2011, quando con Jack Layton come leader vennero eletti 103 parlamentari ndippini.

Anche in questo caso sono iniziati a filtrare i mugugni e i mal di pancia interni, di alcuni esponenti di partito che ritengano come Singh abbia avuto le sue occasioni e che non sia stato in grado di sfruttarle. Nelle prossime settimane vedremo se questo malcelato malcontento strisciante si tradurrà in aperta rivolta contro il leader o se si spegnerà, in attesa del fatidico “non c’è due senza tre” alle prossime elezioni federali.

More Articles by the Same Author: