Il mondo è bello perché è vario. Ne è la perfetta dimostrazione l’antica e pregiata arte giapponese del kintsugi, detto anche, meno comunemente, kintsukuroi. I termini significano, rispettiva-mente, “unificazione dorata” e “riparazione dorata”.
Comunque venga chiamata, l’arte – ed è arte, non artigianato – non ha alcun equivalente in Occidente. Nella nostra cultura, se un pezzo di vasellame si rompe, prima imprechiamo e poi perlopiù buttiamo via i cocci. Se il vaso è di particolare pregio lo facciamo restaurare con l’intento di mascherare il danno e di farlo tornare possibilmente com’era prima dell’ “infortunio”.
Lo scopo del kintsugi è semmai quello di esaltare e impreziosire il danno, ricomponendo i frammenti di ceramica con materiali nobili, tradizionalmente lacche mescolate a polvere d’oro, d’argento oppure di platino
La tecnica “celebra” il fatto avvenuto, rendendo il pezzo più raro, più bel-lo e con una sua precisa storia.
È anche una sorta di metafora, una lezione morale. Le ferite riparate della ceramica rappresenterebbero anche le ferite – visibili o meno – inflitte dalla vita, un riconoscimento dell’umana vulnerabilità, paragonabile in qualche modo alle rughe dei vecchi.
Un po’ rattrista riconoscere che la nostra pratica che forse più s’avvicina a quella giapponese sia la “pre-usura” dei jeans, fatti sbiadire e a volte strappati ad arte…
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