TORONTO – C’è un motivo per il quale sulle magliette degli Azzurri (nella foto uefa.com) brillano quattro stelle, che rappresentano altrettanti Mondiali vinti, e su quelle delle Furie Rosse ne troviamo solo una, triste e spenta. È tutta una questione di DNA calcistico. Nei nostri geni pallonari è radicata la capacità di soffrire, di stringere i denti, di affrontare le partite con pragmatismo e solidità: noi italiani quando scendiamo in campo siamo stati, siamo e saremo sempre maledettamente concreti.
Chi ci disprezza ci definisce maestri del catenaccio – senza peraltro sapere che il catenaccio venne inventato in Svizzera – difensivisti, opportunisti, paladini dell’antiestetica.
Pazienza. E cosa troviamo invece nel DNA calcistico dei nostri cari amici iberici? L’ossessiva e ossessionante ricerca del possesso palla, del fronzolo, della giocata di prima, del mantenere sempre e comunque la palla tra i piedi.
Bravi. Applausi. Ed è su questa trama che si è sviluppata la semifinale di Wembley, con l’Italia che ha subito preso le misure dell’avversario e l’ha lasciato sfogare, affidandosi alle ripartenze, alla solidità del reparto difensivo, alla disciplina tattica del suo centrocampo. Certo, abbiamo ammirato tutti la bravura di Dani Olmo, schierato a sorpresa da Lusi Enrique come falso nueve tra le linee, per non dare punti di riferimento a Bonucci e Chiellini. E ancora, siamo rimasti tutti incantanti dalle qualità di Pedri, magnifico gioiellino di appena 18 anni, che ha dominato il centrocampo con l’autorevolezza di un veterano.
E che dire della concretezza di Koke, e dell’intelligenza tattica di Sergio Busquets? Tutto molto bello. E infatti le statistiche a fine partita hanno parlato chiaro, con le Furie Rosse che hanno avuto il 70 per cento di possesso palla contro il 30 per cento degli Azzurri.
C’è un però, che vale la pena sottolineare: questa estenuante rete di passaggi di prima, questa variante del tiki-taka di Pep Guardiola rivista e corretta da Luis Enrique, questo esasperante, maniacale, morboso possesso palla alla fine si rivela un semplice, sterile catenaccio, fatto 40 metri più avanti. Bellissimo da ammirare per i puristi della tattica, per chi predica il sincronismo dei movimenti, per chi ha fatto del JDP – cioè il gioco di posizione – un credo da seguire manco fosse una religione. Ma nel calcio l’estetica conta fino a un certo punto. La palla, dopo averla accarezzata per tanto tempo, bisogna anche buttarla dentro.
Sarà. Gli Azzurri, dal canto loro, si sono aggrappati al loro pragmatismo, al loro essere concreti e solidi, alternando la capacità di fare muro, di incassare i ganci come un pugile consumato, alle improvvise fiammate in avanti, come quella che ha portato al gol capolavoro di Chiesa, o alla rete di Berardi annullata per fuorigioco.
Per rimettere in carreggiata la sua squadra, Luis Enrique è stato costretto a rivedere i suoi piani, mettendo dentro un centravanti vero come Morata e gente che bada meno ai fronzoli a centrocampo come Thiago e Llorente. E in qualche modo le Furie Rosse il match lo hanno raddrizzato, pareggiando e costringendo gli Azzurri ai supplementari e poi ai rigori.
E qui la differenza l’hanno fatta la calma, il sangue freddo, la capacità di concentrazione dei nostri ragazzi. Vi invitiamo a guardare e riguarda fino alla nausea l’ultimo rigore, quello decisivo, calciato da Jorginho, un campione sempre sottovalutato perché – come ha detto Sarri un paio di giorni fa – “è solo per palati fini”. Il modo in cui posiziona la palla, la rincorsa, il tiro: il tutto fatto con una spensieratezza, una serenità, un autocontrollo che ha dell’incredibile. Il portiere Unai Simon da una parte, la palla che lentamente rotola e si insacca dall’altra.
AS, uno dei principali quotidiani sportivi spagnoli, ha pubblicato una prima pagina senza compromessi, titolando “Porca Miseria” *nella foto qui sotto), in italiano: un’esclamazione che sottintende come le Furie Rosse siano state sfortunate. Ma qua non c’entra la miseria, non c’entra nemmeno la sfortuna. C’entra solo la differenza del DNA calcistico.
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