Interviste

‘Io capitano’ verso gli Oscar. Garrone: “Dietro i numeri ci sono persone e sogni”

TORONTO – Il regista Matteo Garrone dice di aver provato “soddisfazione ed emozione” per la nomination di “Io capitano” all’Oscar nella categoria Miglior film internazionale. È un film, questo, che racconta una storia cruda, fatta di coraggio e dignità e che ha già vinto il Leone d’argento per la miglior regia alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Le dinamiche sociali e la necessità di scandagliare situazioni reali, rifiutando la spettacolarità fine a se stessa sono una costante dei film di Garrone. Che in “Io capitano” – opera di grande carica emotiva e altrettanto grande intensità – ha voluto raccontare il percorso di questi ragazzi attraverso l’Africa dal loro punto di vista: “Mi sono aggrappato alle loro storie, gli attori mi hanno regalato la loro umanità e la loro spiritualità”, dice Garrone.

In attesa di volare a Los Angeles il regista ha concesso un’intervista al Corriere Canadese.

È rimasto sorpreso dalla candidatura agli Oscar?
“Sorpreso no, diciamo ci ha fatto molto piacere, quello sì. Penso che sia un film che ha delle qualità e lo ha dimostrato, abbiamo fatto un percorso che è partito dai premi di Venezia e quindi sapevamo che era un film che aveva una sua forza”.

Come è nato “Io capitano”? Lei ha detto di aver fatto un lungo lavoro di preparazione…
“Nasce fondamentalmente dall’ascolto di chi ha vissuto queste storie, di chi ha fatto questo viaggio epico per raggiungere il nostro Paese. È un film che nasce dal desiderio di dare voce a chi di solito non ne ha, diciamo che è un controcampo rispetto a quello che siamo abituati a vedere in televisione. È il punto di vista loro, non il punto di vista nostro”.

È vero che lei non ha mai svelato ai protagonisti come sarebbe andata a finire?
“Sì, ho preferito non dare la sceneggiatura agli attori. Sono dei ragazzi che avevano molte cose in comune con i personaggi che interpretavano, mai usciti dal Senegal, avevano anche loro il desiderio di scoprire il mondo, di scoprire l’Europa, l’America e quindi ho creato una sorta di matrimonio tra loro e i personaggi che avevamo scritto. Girando in ordine cronologico, ogni giorno vivevano un’avventura nuova, come se avessero fatto un viaggio reale. Erano partiti con quella ingenuità, con quella innocenza che spesso hanno i ragazzi che partono pensando che possa essere tutto facile. Quando si è giovani si pensa di essere imbattibili e poi piano piano si ritrovano dentro un meccanismo più grande di loro e non sanno più come uscirne”.

Come è avvenuta la scelta dei protagonisti?
“Abbiamo fatto un cast in Senegal, abbiamo fatto dei provini, da questi provini poi ho visto che c’erano alcuni ragazzi che avevano delle qualità. Abbiamo scelto anche ragazzi che facevano teatro e quindi avevano già una predisposizione per la recitazione e poi, facendo delle prove, ho scelto Seydou e Moustapha”.

Come mai è tornato a trattare questo tema, l’emigrazione, che era già presente nei suoi primi lungometraggi?
“I primi film erano dei film di formazione, poi c’era il tema dei protagonisti che erano dei migranti, ma erano l’occasione per raccontare il nostro Paese. Questo film è esattamente l’opposto. Nasce come dicevo prima dal desiderio di raccontare quella parte di viaggio che noi non vediamo, quindi, mi sembrava giusto e importante poter provare a umanizzare i numeri perché ormai da anni assistiamo a questa rituale conta dei vivi e dei morti. In 10 anni 30mila morti, ogni anno ci sono tremila morti e questi numeri sembrano dei numeri dove non c’è dietro un’anima, invece il film cerca di umanizzare questi numeri, cerca di raccontare che dietro questi numeri ci sono delle persone come noi che purtroppo sono vittime di un sistema ingiusto che non gli consente di muoversi liberamente come facciamo noi, quindi sono costretti a rischiare la propria vita”.

Come vede il fatto che un governo che voleva lo stop se non addirittura il blocco navale per fermare l’arrivo dei migranti adesso si ritrova un numero di sbarchi ancora maggiore?
“Il film tratta dei temi che vanno al di la di un governo o di un altro perché è un film che nasce tre anni fa, quando ancora non c’era un governo di centrodestra, è un film che tratta di diritti umani violati. Da tanti anni ci sono gli sbarchi, ci sono sempre stati naufragi, morti, e ce ne saranno ancora in futuro quindi… anzi sembra che la tendenza globale – non solo in Italia – sia sempre di più quella a chiudere piuttosto che ad aprire. Diciamo che è una delle pagine buie della nostra storia contemporanea, non è un film che cerca di dare una risposta ad un tema così complesso, è un film che cerca di far vivere allo spettatore un’esperienza, quella del viaggio in soggettiva. Poi ognuno può trarne le proprie conseguenze”.

Secondo lei il film può servire a sensibilizzare le persone su questo tema?
“Questa è una risposta che le posso dare con certezza perché sono sei mesi che sto accompagnando il film, ho incontrato migliaia e migliaia di spettatori, migliaia di studenti soprattutto in Italia, ma anche in Francia. Il film è stato visto tantissimo dai ragazzi per fortuna e quindi sicuramente i ragazzi, ma non solo loro, hanno la possibilità attraverso questo racconto epico – che poi è un racconto estremamente accessibile al pubblico perché è il viaggio dell’eroe, è come se fosse una fiaba omerica – di entrare immediatamente in empatia con il protagonista e vivono il viaggio attraverso i suoi occhi e quindi hanno la possibilità di vedere da una prospettiva diversa quello che è il dramma della nostra epoca. Quindi sì, senz’altro il film aiuta a sensibilizzare il pubblico, non credo che cambi molto rispetto alla politica perché la politica sa benissimo che si muore nel deserto, sa benissimo che si muore in Libia torturati e sa benissimo che si muore nel Mediterraneo quindi non c’è nulla di nuovo che il film dice. Quello che mostra il film è lo sguardo interno, diciamo il controcampo. È un viaggio dall’interno, cerca di toccare poi le emozioni dello spettatore che è quello che dovrebbe fare il cinema, dare allo spettatore la possibilità di vivere delle emozioni attraverso una esperienza”.

Il suo è un film anche politico quindi?
“Lo è senz’altro, anche se non parte dalla premessa di voler essere un film politico e forse, proprio per questo, lo è diventato ancora di più”.

Spesso i politici dicono “Aiutiamoli a casa loro”. Lei cosa ne pensa?
“Ognuno può dire quello che vuole. Io penso che sia giusto, sensato e intelligente, visto che noi siamo un Paese che invecchia e loro sono un Paese giovane, cercare di avere uno scambio, una apertura. Non possiamo pensare che sia possibile continuare a mettere nella condizione di morire e di fare arricchire i trafficanti di essere umani, donne, bambini, giovani e meno giovani per un diritto che dovrebbe essere un diritto di tutti, quello a muoversi liberamente, a venire e a tornare. Personalmente penso che sia giusto cercare di sbloccare i visti e dare, sotto un controllo, la possibilità di muoversi liberamente. Ripeto, noi siamo un paese che invecchia, loro sono un paese giovane, sono degli eroi perché riescono a superare spesso tante difficoltà e quindi hanno mille qualità. Il film dimostra che si può lavorare insieme benissimo, siamo arrivati nella cinquina degli Oscar, dimostra che ci può essere uno scambio positivo senza che nessuno sfrutti l’altro ma con un rispetto reciproco, e con una fiducia reciproca. Io penso che questa sia la strada più giusta, non credo che alzare i muri aiuti. Aiuta solo i trafficanti di essere umani ad arricchirsi e a far aumentare il numero dei morti anche perché i giovani e i meno giovani non si fermano davanti a dei muri, davanti all’ingiustizia di vedere altri che arrivano liberamente in vacanza nei loro Paesi mentre loro non possono andare in quelli degli altri”.

Questi ragazzi quindi a volte desiderano anche una vita migliore in un altro Paese.
“Sì non dimentichiamo che il film racconta anche un’altra cosa. Molti partono, non solo come siamo abituati a pensare, da guerre, da situazioni di estrema disperazione, ma anche perché noi proiettiamo delle immagini, noi attraverso la globalizzazione, attraverso i social media creiamo le premesse perché loro poi abbiano il desiderio di venire da noi.Non dimentichiamo che i telefoni ci sono, hanno accesso ai social media e iniziano addirittura a vivere nei nostri Paesi virtualmente, iniziano ad avere la sensazione che nei nostri Paesi sia tutto più semplice, che ci si possa arricchire più facilmente. Sono immagini che fanno tante promesse, chiaramente loro non vedono quello che c’è dietro e che noi conosciamo, quindi è umano e comprensibile che abbiano ancora di più il desiderio di muoversi rispetto a prima. I nostri lontani parenti emigravano senza avere una idea precisa di quello che sarebbero andati a trovare, emigravano per cercare opportunità migliori. Oggi c’è anche questo tema che è importante. Noi in qualche modo infettiamo con le immagini, con queste immagini che creano il sogno, la loro immaginazione, siamo complici in qualche modo, di questo meccanismo”.

Qui sotto, il video dell’intervista integrale del Corriere Canadese al regista Matteo Garrone; in alto, una scena del film “Io capitano”

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