Negli ultimi decenni l’identificazione e la promozione di crisi impellenti di vario tipo sono diventate un settore importante dell’economia terziaria. In sé, l’attività di segnalare l’avvicinarsi della fine del mondo non è nuova ma, con l’indebolimento dell’autorità religiosa, l’iniziativa della previsione è passata nelle mani di altri attori.
Nell’epoca vittoriana c’era allarme morale per la scoperta di come numerose donne si fossero date alla lettura di “romanzi”, come nel secolo scorso si temeva l’assuefazione dei giovani al gioco del flipper e al chewing gum, nonché per gli effetti che l’allora nuova televisione avrebbero potuto avere sulle menti del popolo.
L’enorme successo di organizzazioni come il WWF e Greenpeace ha poi indicato la strada verso la forte preoccupazione climatica e il global warming ha fatto il resto, raggiungendo l’apoteosi con il fenomeno “Greta”.
Sono temi che spesso hanno un fondo di validità, ma il pubblico è infedele, i gusti cambiano e il clima non sempre collabora.
La mazzata è arrivata con il Covid. Creando l’imminente rischio di morire malamente, la pandemia ha ri-focalizzato l’attenzione generale.
Il conseguente danno economico ai movimenti climatici è paragonabile a quello subito dall’industria e dal commercio al minuto.
La Thunberg ha annunciato il suo ritorno agli studi e i climatologi si riciclano con altre specialità.
Ci voleva un’altra crisi millenaria, e ci ha pensato l’ONU. I suoi scienziati si sono accorti del prossimo esaurimento delle scorte della terza più importante “materia prima” al mondo dopo aria e acqua: la sabbia.
La mente corre subito alle sterminate dune del Sahara, ma è bene ricordare che con la sabbia del deserto si fa il vetro, ma non il buon cemento—è troppo liscia, levigata dalla frizione dei granelli sotto l’azione del vento. La sabbia da costruzione è più ruvida, erosa dall’acqua in riva al mare o ai fiumi. La sabbia infatti non è una risorsa rinnovabile, ci vogliono epoche geologiche intere perché se ne generi in quantità significative, mentre il fabbisogno cresce velocemente, principalmente per l’urbanizzazione e le infrastrutture per i trasporti.
L’ONU stima—un po’ alla carlona per la verità—che il mondo consumi annualmente tra i 40 e i 50 miliardi di tonnellate di sabbia da costruzione: “Abbastanza per gettare ogni anno un muro alto 30 metri e largo altri 30, tutt’attorno al pianeta”.
La sabbia è anche corruttrice. Secondo il Global Financial Integrity, un think tank americano che studia “traffici illeciti”, la sua estrazione illegale genererebbe il terzo più alto volume di crimine transnazionale dopo la contraffazione e il traffico della droga—attorno ai 200 miliardi dollari annui già nel 2017.
Comunque sia, tra le nuove città e le nuove strade—e i criminali che vengono di notte a rubare le nostre spiagge—secondo l’ONU la scarsità della materia promette di essere una delle più importante “sustainability challenges” del 21° secolo.
Pascal Peduzzi, un climatologo dell’UNEP—United Nations Environment Programme dice: “Non è il caso di andare in panico, non aiuterebbe. È ora invece di guardare più a fondo e di cambiare la nostra percezione della sabbia”.
Non ha però gli occhi teneri dei koala o la pelliccia morbida del tigrotto. La sabbia non è la natura in versione peluche.