TORONTO – Come avevamo preannunciato su queste pagine mesi fa, dopo il tutto esaurito a Montreal, sabato scorso è finalmente arrivato a Toronto lo spettacolo “So I Married a Mangiacake”, scritto e interpretato da Guido Cocomello, diretto da Tony Calabretta e prodotto da Sal Ciolfi per Amor Fati Productions. Come teatro per questo ’one-man show’ sui rapporti tra italo-canadesi e ’mangiacake’ si è scelto, molto appropriatamente, il palco del Royal, nel cuore della Little Italy torontina.
Cocomello, in tutti i sensi protagonista di questo spettacolo, è figlio di immigrati italiani venuti dal Lazio a Toronto negli anni ’60; la sua vicenda familiare, e in particolare il rapporto con il padre, si intreccia con la storia d’amore con la ’mangiacake’ del titolo, in un’esilarante esplorazione delle differenze culturali tra queste due comunità. Tutto comincia quando una mattina Guido vede i suoi figli mettere il ketchup sulle uova: lì capisce che la sua discendenza italiana può considerarsi finita, perché mai un autentico italiano, per il quale il ketchup è un pomodoro che non ce l’ha fatta, si renderebbe complice di tale scempio. Come nei più classici film anni ’70, da qui parte un viaggio nel passato per capire come si è arrivati a questo punto. Questo canovaccio offre ovviamente lo spunto per ridere bonariamente di entrambe le culture: i canadesi, con la loro ossessione per i cottage, la cucina discutibile e così via, ma anche gli italiani, il loro tradizionalismo non sempre giustificato, le tanti piccole e grandi manie.
Ma “So I married a Mangiacake” è anche una storia molto personale e a tratti anche dolorosa. Nonostante il fuoco continuo di battute e ’observational humour’ e la leggerezza di fondo, Cocomello si racconta con una sincerità disarmante, senza nascondere momenti di vulnerabilità, soprattutto nella parte conclusiva dello show. Insomma, lo spettacolo è una scanzonata analisi di un ’culture clash’, raccontata però non dall’esterno, ma come testimonianza di un’esperienza di vita che si è formata all’insegna di questa duplciità.
La riuscita dello spettacolo deve molto al magnetismo di Cocomello, che riesce a non far cadere mai l’attenzione degli spettatori per le quasi due ore di durata dello spettacolo, pur rimanendo sempre solo sul palco. Non si tratta però di di ’stand-up comedy’ pura: l’attore si rivolge direttamente al pubblico, ma il monologo è inframezzato da scenette in cui interpreta insieme se stesso da bambino, adolescente, adulto, e anche i vari personaggi con cui interagisce – memorabili le conversazioni con il suocero, nella più classica attività di ’bonding’ con il genero: la pesca sul lago.
Anche la messa in scena è essenziale ma efficace: pochi attrezzi di scena – una barca, una cassa, una scala a pioli – che bastano a fornire le coordinate per alcuni passaggi chiave. L’elemento più costante a supporto della recitazione è l’uso di una variegata colonna sonora e di immagini proiettate sul fondale, perlopiù vere foto di famiglia che sottolineano ulteriormente lo stretto nesso tra rappresentazione e realtà, tra attore, personaggio e uomo.
Insomma, usando con abilità questi pochi elementi, “So I Married a Mangiacake” dà vita a uno spettacolo divertente e intrigante, che, per una volta, non sfrutta i cliché per creare facili effetti comici ma li usa invece con intelligenza e sensibilità come punti di partenza per raccontare una storia profondamente personale in cui tutti però possiamo riconoscerci.
Per chi si fosse perso lo spettacolo a Toronto, le prossime date disponibili sono a Montreal il 16 aprile e ad Hamilton il 30 aprile.
Nella foto: Cocomello al Royal in “So I Married a Mangiacake”