La Cina è un paese rognoso che sempre di più si scontra con un altro paese rognoso, gli Stati Uniti.
Visto da fuori, non è subito ovvio perché i due si diano tanta pena— ognuno ha grandemente bisogno dell’altro—e nemmeno perché insistono a metterla anche sul piano militare. Non è che poi gli uni possano pensare di conquistare gli altri.
Si è dibattuto senza fine sul carattere degli Usa, ma parecchio meno su quello della Cina. Per molti analisti il suo fortissimo desiderio di rivalsa discende dal lungo “Secolo dell’umiliazione”, i 110 anni tra il 1839 e il 1949 durante i quali la Cina ha perso la sovranità su una larga fetta del suo territorio in favore delle potenze occidentali, soprattutto europee. La facilità con cui vennero sconfitte le armi cinesi fu uno choc e una sorpresa totale per l’Impero.
Il Paese, storicamente, aveva rapporti internazionali principalmente con i vicini deboli che pagavano in ginocchio, da supplicanti, un tributo annuale, il prezzo del “quieto vivere” versato dal topo che dorme accanto al drago. Imperatori e dinastie cambiavano, ma avevano in comune di sapere poco del resto del mondo—e di curarsene meno ancora.
Poi, nel 1839, gli inglesi mandarono le navi da guerra su per il fiume Yangtze per obbligare il Governo Imperiale ad aprire i propri porti e mercati al commercio occidentale, dando inizio alla prima “Guerra dell’oppio”, un conflitto che i cinesi persero malamente.
La Cina aveva sempre pensato di essere un paese ricco e immensamente potente, di essere per l’appunto il “Regno di Mezzo”, al centro del mondo. Si scoprì improvvisamente povera, debole e periferica. Era solo l’inizio della sua “umiliazione”. Il Giappone, fino ad allora considerato dai cinesi un insignificante “fratello minore”, si dimostrò subito molto più abile nel gestire la presenza dell’Occidente in casa propria.
La Cina intanto fu scossa da una serie di gravi ribellioni che causarono decine di milioni di morti, in parte scatenate dall’evidente debolezza dell’Impero nei confronti degli stranieri. Movimenti di indipendenza nel Tibet, in Mongolia e nello Xinjiang nei primi anni del 20° secolo costarono altri territori. Come se non bastassero questi disastri, l’invasione giapponese e una guerra civile decennale tra i Comunisti e i Nazionalisti del Kuomintang devastarono ciò che rimaneva del Paese.
Il Secolo dell’umiliazione fu una sequela ininterrotta di calamità. Per i cinesi, si concluse solo nel 1949, con la vittoria definitiva di Mao Tse-tung e della sua Armata Rossa sui Nazionalisti di Chiang Kai-shek. E, molto umanamente, tutte queste disgrazie erano da imputare—nella comoda percezione nazionale—a qualcun altro: i maledetti Occidentali…
“L’Occidente” europeo di quell’epoca non c’è più, gli Stati Uniti devono bastare. Paesi come la Cina sono pericolosi in due momenti, quando sono indeboliti e quando gli tornano i muscoli.
Mao Tse-tung —se ancora ci fosse—molto probabilmente non apprezzerebbe la Cina arricchita e sempre più consumistica di oggi, ma il suo sogno era il sogno del Paese, di una nazione che deve avere la sua vittoria, che deve tornare al centro del mondo.
La striscia di ideogrammi cinesi che accompagna il testo esorta: “Cancellare l’umiliazione nazionale!”