Gusto

Le ricette (italiane) dei lettori:
ecco la Pinsa friulana,
un dolce dalla lunga storia

TORONTO – Il nostro lettore Gino Vatri ci ha inviato una ricetta tipica regionale: quella della pinsa, non la pizza romana bensì il dolce friulano dell’Epifania. “Negli anni 40, attorno all’Epifania, ma anche durante tutto l’anno – racconta Gino – , mia mamma faceva spesso la pinsa che veniva cotta nel fogar (focolare) oppure sullo spoler (cucina economica costruita in mattoni). Eravamo fortunati perché avevamo sia il fogar che lo spoler. Durante l’anno ci recavamo spesso a Stiago (Fossalta di Portogruaro, Venezia) dove abitavano i nonni materni. Il 15 agosto eravamo sempre a Fossalta per la Festa dell’Assunta, il giorno dopo ci si fermava a San Giorgio al Tagliamento (San Sors dalla Pinsa) per la Festa di San Rocco”.

“I crostoli sono ormai parte della cultura italocanadese – prosegue Gino – : la pinsa è meno nota a Toronto, ma questa tradizione continua nella famiglia di Colette Battiston, una friulana nata in Francia da genitori originari della Destra Tagliamento. Colette prepara la pinsa, non solo per la sua famiglia ma anche per gli amici che vengono dal Friuli e dal Veneto: la sua è una pinsa molto buona che mi ricorda quella di mia mamma di tanti anni fa. Barbara Battel, recentemente, ha scritto un “gustoso” articolo; come solo lei sa fare, sulla pinsa”.

Ecco l’articolo di Barbara Battel.

In me vive una gran golosa…

L’Epifania, col suo “pignarûl” in lingua friulana, ma “pan e vin” in dialetto veneto, portava come tradizione sulle nostre tavole un dolce profumato di quella che oggi definiremmo povertà, ma che ai miei tempi era vita comune a moltissimi: il dolce si chiamava e chiama “pinza”. Mia madre lo cucina divinamente e di solito me ne fa portare una porzione da mio fratello: accompagna il fagottino sempre con parole che ne giustificano, a suo dire, la non perfetta riuscita. Mamma, ma mamma mia non c’è dolce più profumato, buono, gustoso, pieno di gioiosa morbidezza e granulosa pastosità!

Chiudete gli occhi ed assaporate il primo boccone di questo dolce della povertà: non è soffice, ma ben compatto senza essere duro. Per primo senti la fragranza della buccia di arancia, c’è l’aroma del seme di finocchio, la pasta ha un po’ di umidità regalatale dalla farina di polenta, poi arrivano anche i pezzettini di fichi secchi ospiti principi e principali della parte zuccherosa del dolce, la picchiettatura dolce dell’uva sultanina fatta rinvenire in un liquido a disposizione, la crosta superiore appena un po’ più brunita delle parti laterali… da non credere quanto io stia salivando solo al pensiero della bontà impagabile del dolce tradizionale per quel solo giorno nell’ anno!

Era il giorno della Befana e i nostri calzini venivano appesi intorno al tubo della stufa economica a legna al posto della biancheria leggera. Durante la notte la mamma li avrebbe riempiti di due o tre mandarini, arachidi, noci e nocciole (pochissime quest’ultime due) pochissime caramelle, qualche simbolico pezzetto di carbone, a specificare che proprio “santi” non lo eravamo stati… ma era felicità pura perchè i mandarini rappresentavano il profumo di un agrume goduto e gustato solo in occasione delle feste natalizie!

L’etica morale mi impone di sottolineare il fatto che quando il fagottino di pinza arriva tra le mie mani, il sorriso del mio fratello minore ha un qualcosa di diabolico: lui lo sa che i dolci (mia perversione dannata) non sono ben visti da Odillo per l’effetto lievitante che essi apportano alle mie già pronunciate rotondità… e proprio per questo sogghigna immaginando già la scena successiva.

Se infatti Odillo è lontano dalla zona/scambio (di mani del dolce fagottino) parlo con lui tra un boccone vorace e l’altro…mentre se invece si sta avvicinando a noi due Giannino si trasforma in un consumato attore decantando la mia tenacia nel non cedere in tentazione davanti al dolce tipico veneto (che Odillo non contempla nemmeno tra i “cibi”) e “Pensa, Odillo, non ha voluto accettarne nemmeno un pezzetto, mi ha costretto a rimetterlo in auto!” Sorride il satanico e complice fratellino, sorride anche l’adorato e antiglucidico maritino, internamente sorrido anch’io al pensiero di quando in un lontano (dagli occhi di Odillo) cantuccio della grande casa “divorerò” a tempo di record il dolce che più mi parla della mia infanzia e della mia conclamata golosità!

“Ci sono diverse varietà di pinsa – aggiunge Gino – : sulla rivista il Timent 147 che ricevo mensilmente da tanti anni ho trovato la ricetta che, come ho detto sopra, si faceva negli anni ’40 del secolo scorso. La ricetta è in friulano ed è firmata da Gianfranco Galasso. Eccola.

Ingredienti:
– Olio di girasoli;
– Farina di frumento;
– Mezzo bicchiere di grappa;
– Farina di segala (deve essere morbida e non dura come il pane);
– Lievito di birra (più si leva meglio è, minimo 3-4 ore);
– Ficchi secchi;
– Buccia di limone grattugiata;
– Semi di finocchi

Il contenitore deve essere lubrificato con burro e pane perché non si attacchi (lo vendevano Amadio e Giuseppe Miorin nel forno della curva di San Giorgio).

Gino Vatri, Toronto

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