Cultura

Migranti di ieri e di oggi
nel docu-film di Alessia Bottone

VERONA – Cosa guardava, papà, dalla finestra? A cosa pensava? Forse alla sua Napoli lasciata tanti anni prima per il profondo Nord? Per rispondere a queste (e tante altre) domande, la giovane regista, sceneggiatrice e giornalista italiana veronese Alessia Bottone (nella foto sopra) – con diversi cortometraggi, libri, inchieste e svariati premi all’attivo – ha deciso di scavare nel passato di altre vite, quelle conservate negli audiovisivi degli archivi Aamod, Istituto Luce e Home Movies, l’archivio di Bologna che raccoglie i filmini familiari. E, mescolando quei ricordi ai suoi ed a quelli di papà Giuseppe, trasferitosi al Nord quando emigrare era un’odissea come quella che vivono oggi i migranti in cerca di un mondo migliore, è nato il docu-film “La Napoli di mio padre”: uno struggente viaggio nel tempo. Quanto mai attuale.

Alessia, il suo lavoro è frutto di una lunga ricerca in archivi audiovisivi che raccolgono “pezzi” di vite, vissute nell’anonimato. Perché ha scelto quei filmati?
“Innanzitutto perché il film è stato realizzato nell’ambito del Premio Zavattini il quale prevede il riutilizzo del materiale di archivio per la realizzazione di cortometraggi. Essendo finalista del premio, ho quindi utilizzato i materiali messi a disposizione dall’archivio Aamod, Istituto Luce e poi sono andata a cercare altri filmati a Bologna, in particolare alla cineteca e all’Home Movies, l’archivio di famiglia. Ho partecipato al bando proprio perché non avevo mai realizzato un lavoro con materiale di archivio e mi affascinava la possibilità di imparare questa tecnica anche perché il premio, tra i suoi benefit, prevedeva la possibilità di accedere ad un percorso di formazione durante il quale ho avuto modo di confrontarmi con professionisti del settore documentaristico e archivistico. Una bellissima esperienza che credo determinerà anche i miei prossimi lavori considerato che vorrei continuare a utilizzare materiale di archivio in futuro. Certo, non è semplice: ho impiegato due anni per trovare le immagini e nel mio short documentary troviamo più di 70 film e documentari, un lavoro di ricerca piuttosto impegnativo ma molto soddisfacente”.

I migranti di ieri, come suo padre, e quelli di oggi che ha conosciuto lavorando in un centro di accoglienza e che ha citato nell’opera: cosa è cambiato, da allora, per quelle storie di fuga e ricerca? E pensa che continuerà ad affrontare lo stesso tema anche in futuro?
“In realtà il tema della migrazione è sempre stato il mio punto fisso. Nel 2009 ho lavorato in Svizzera, in un centro di accoglienza per richiedenti asilo: insegnavo a leggere, scrivere, mi occupavo delle traduzioni e delle pratiche amministrative e, durante quel periodo, ho scritto la mia tesi di laurea sulle politiche di asilo europee, una comparazione tra Italia e Svizzera. Mi sono sempre occupata delle persone in fuga, intendo la fuga vera, quella per motivi politici, religiosi, economici, perché penso che le persone non si rendano conto di cosa voglia dire scappare, lasciare tutto da un giorno all’altro, perdere tutto e non sapere dove andare. Io con quelle persone ci ho vissuto, so cosa si prova, ci vuole molto coraggio, tutto il coraggio che hanno avuto anche gli italiani che oggi vivono all’estero, soprattutto quelli che sono partiti tra i primi del Novecento e gli anni ’60. Deve essere stato molto difficile, ambientarsi, sentirsi distanti, non capire la lingua, essere discriminati, come racconto nel docu-film. Parlando con alcuni di loro, mi rendo conto che talvolta si sentono molto più italiani di noi che siamo rimasti in Patria, forse perché la lontananza ha rafforzato quel sentimento, quel bisogno di comunità che qui si è andato sgretolando per svariati motivi. Li ammiro molto, anche io ho vissuto all’estero ma nel confort del XXI secolo, è diverso, non è stato facile ma nemmeno così difficile, l’atmosfera è cambiata, per fortuna senza contare che è molto più semplice ottenere un lavoro, un documento, aprire un conto corrente e affittare un appartamento. Se invece penso ai nuovi migranti non europei, il discorso cambia del tutto e mi dispiace molto il fatto che le immagini di questi sbarchi, di questi bambini che affogano in mare, queste persone vestite di stracci che affrontano il gelo nei Balcani dormendo nelle tende. Sembra quasi che le immagini abbiano assuefatto le persone, che tutto ciò sia la normalità, in pochi si indignano o si dispiacciono. Lungi da me dal risolvere in poche righe una questione annosa, ma la storia parla chiaro, da secoli ci si sposta in cerca di condizioni migliori. Il sistema è ormai imploso da tempo, la decantata giustizia sociale è rimasta un miraggio e le diseguaglianze sociali sono una costante, alla gente non resta che fuggire in cerca di una vita migliore”.

E lei? E’ mai fuggita? E perché è tornata?
“Io sono sempre in fuga. E sono sempre stata in fuga, sin da quando le maestre mi chiedevano di ‘restare seduta al mio posto’. La mia, come quella di mio padre, non è ribellione, ma voglia di non restare mai ferma, di scoprire, conoscere, imparare, studiare, confrontarmi con le persone. Ho tentato la mia prima fuga a 16 anni, ma non sono riuscita a convincere i miei genitori: volevo andare in Germania per l’estate a fare la gelataia e imparare il tedesco ma non me lo hanno permesso, giustamente… ero veramente troppo giovane. Ma a 21 anni ho vinto una borsa per l’Erasmus in Spagna e sono tornata… cinque anni dopo. Mi sono laureata comunque, triennale e magistrale con Master successivo, ma l’ho fatto studiando dall’estero e tornando solo per dare gli esami e nel frattempo ho imparato tre lingue straniere e ho vissuto in sette Paesi Ue ed Extra Ue, lavorando e svolgendo dei tirocinii formativi. Adesso sono a Verona, sono in pausa dalla fuga. Aggiungo che la fuga è positiva, fomenta la creatività, è necessaria per sentirsi vivi e attivi, almeno, per me è così”.

Cosa pensa suo padre dell’opera? Cosa le ha detto dopo averla vista?
“Inizialmente era un po’ restio, non sapeva se partecipare o meno in qualità di voce narrante, mi suggeriva di contattare un professionista poi ha cambiato idea. Ha capito che poteva farcela e, devo dire la verità, è stato davvero molto bravo. Lui non è un professionista, recita ma a livello amatoriale, e si è impegnato molto, lavorando sull’intonazione, la dizione etc. Sono contenta di sapere che mio papà, il protagonista della storia, abbia anche avuto la possibilità di narrarla in prima persona, e poi lavorare assieme è stata una bella avventura, spero di poter fare qualcos’altro con lui in futuro. Non ha voluto vedere il film, fino alla prima proiezione, al festival, il Filoteo Alberini di Orte, lo scorso agosto e, a giudicare dalla sua espressione, direi che gli è piaciuto eccome, era molto emozionato”.

Chiudiamo… ritornando a lei: dove vuole andare Alessia Bottone? Cosa sogna per sé?
“Alessia sogna di meravigliarsi sempre, di aver sempre voglia di imparare e di avere sempre fiducia nel futuro, credo siano tre elementi necessari. Ma soprattutto mi piacerebbe molto continuare a fare questo lavoro che amo molto, che mi permette di non accorgermi nemmeno del numero infinito di ore che trascorro al computer e soprattutto mi permette di fermarmi e di soffermarmi e riflettere, un lusso credo in questo momento storico. A me interessano le persone, non quello che dimostrano, ma quello che pensano. Mi piace andare a cercare le storie, gli aneddoti e farne parte, grazie ai loro racconti. Quando condividi ciò con le persone, non ti separi mai da loro, resta sempre una connessione, un ricordo vivido, anche quando ci si trova lontani.  Sul dove andare… direi ovunque ci sia qualcosa da raccontare, da scoprire. Mi piacerebbe visitare un Paese in cui tempo scorre lento, sedermi su una sedia e osservare le persone, quale migliore ispirazione per il prossimo lavoro?”.
Buon viaggio, Alessia.

Guardate i trailers cliccando qui:

La Napoli di mio padre (official trailer)

La Napoli di mio padre (Festival di Napoli)

 

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