Cultura

“L’amor che mosse il sole
e la di lei stella”

VENEZIA – In quest’anno (ormai, quasi un anno e mezzo abbondante) che ci ha riempito le orecchie e gli occhi degli effetti devastanti di questa pandemia (e non sta a me cercare di elencarli tutti in maniera doviziosa e dolorosa) abbiamo perso tantissime persone: tra queste, molti grandi artisti, intellettuali, creativi, disegnatori di moda e così via. Il rischio, per chi scrive per un giornale, è che le pagine culturali si tramutino in una lunga, travagliata trenodia. Ma i necrologi non servono a chi se ne va e, forse, ben poco di buono fanno a chi resta. Se comunque un memoriale va steso allora credo sia capitale poter rinverdire gli allori più e meno recenti di chi ci lascia per capire a fondo il valore delle loro carriere, dei loro contributi al sistema mondo, alla civiltà umana.

Nel caso di Carla Fracci, al secolo Carolina, è per me significativo stendere una riflessione che forse avrà del personale e spero non del patetico. La danza per me è una delle arti tra le più raffinate e complesse: tutto ciò che vediamo sul palco rientra nel superno consesso delle cose più artificiali al mondo e tali sono per apparire così la cosa più naturale che si possa immaginare. Dietro questa eterna dicotomia tra ars e natura vi è da capire meglio e più a fondo il valore di una disciplina come la danza.

La mia fortuna è quella di aver potuto e poter toccare con mano i grandi sacrifici (fisici e psicologici) che alcuni miei amici fanno quotidianamente in nome della danza. Si possono citare le lunghe ore alla sbarra, in sala a provare e riprovare il frammento di un movimento della caviglia che in loggione non noterà nessuno, i rivoli di sudore durante gli spettacoli sotto il trucco su volti che si aprono sempre in larghi sorrisi, con gli occhi rivolti al buio di una sala più o meno scrosciante di applausi, le diete ferree, le rinunce, l’investimento emotivo, la partecipazione come singolo o come membro di un corpo di ballo. Le ore per affinare la tecnica ma anche l’interpretazione, il bisogno di sentirsi sempre all’altezza di ruoli che paiono cristallini e sovrumani, creati dalle divinità della danza a livelli di perfezione quasi inarrivabili. E poi, a fine giornata, alle tante domande che possiamo porci noi – profani, neofiti o stagionati frequentatori del balletto – una risposta viene data dallo sguardo di chi della danza ha fatto un lavoro (letteralmente nutrito di passione e sudore). Sono quegli occhi e quei corpi pieni di voglia di fare, di dare il massimo, di entusiasmare il pubblico, gli amici, gli orchestrali e i colleghi che riescono a pronunciare più di mille parole. La chiave è l’amore. E l’amore nasce dalla dedizione, silente, nobilitante, santa, accolta, condivisa. Qualcuno diceva che il genio lavora otto ore al giorno.

E allora il modo migliore per rendere omaggio alla stella di Carla Fracci risiede in ciascuno di noi. Prendetevi dieci minuti in questi giorni e tornate a guardare (o guardate per la prima volta) i suoi spettacoli: tornate a leggere il suo corpo nella “Giselle” con Nureyev, un momento della carriera della grande ballerina in cui il minimo movimento del polso è pensato, ponderato, cesellato, amato. Le grandi interpretazioni, quelle che rilanciano la portata emotiva di un ruolo, nascono dallo studio. Torniamo ad apprezzare un’altra arte dimenticata. Non si vede ma c’è. E fa bene all’anima e al cuore. Non sono i nomi altisonanti dei teatri di fama internazionale a fare il grande artista: è la vibrazione di un dito nel palpito di un port de bras, come un lieve battito d’ali di farfalla. Torniamo a cercare di capire chi era l’artista, non la Fracci, e perché Carolina (nota come Carla) sapeva morire e rinascere nei panni di Giselle, della Sylphide e molte altre. Non sono le punte di gesso che elevano le danzatrici ma, come sempre, il loro stesso spirito: di abnegazione, di dedizione, di amore. È nell’anelare di un frammento di passo di danza che possiamo percepire (a volte capire) l’Arte. È un soffio. La nostra étoile, la nostra farfalla si è alzata in volo. Seguitela con lo sguardo se potete.

Nella foto: Carla Fracci al teatro alla Scala nel 1969

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