Cultura

Boccaccio racconta Dante
secondo Pupi Avati

VENEZIA – Nel 1350 messer Giovanni Boccaccio intraprese un viaggio verso Ravenna per incontrare la allora Suor Beatrice, nata Antonia di Dante degli Alighieri, per fare ammenda con moneta sonante dell’oltraggioso esilio che era stato comminato a colui che oggi, e da molti secoli or sono, appelliamo il Sommo Poeta.

Pupi Avati (nella foto sopra), evidentemente non pago delle vendite del suo romanzo “L’alta fantasia” del 2021, rimette in gioco due delle cosiddette tre corone della nostra letteratura nel suo ultimo (speriamo letteralmente) film “Dante”, nelle sale italiane (ci auguriamo mai quelle estere) dalla scorso 29 settembre.

Affrontare un tema in chiave cinematografica come quello dantesco – la vita, gli amori, le opere, i rapporti politici, intellettuali e così via dell’Alighieri – non è cimento umano. Tuttavia, come si suol dire, tentar non nuoce.

La pellicola di Pupi Avati, che si basa ampiamente sul libro del medesimo, intreccia la narrazione del viaggio di Boccaccio verso Ravenna ad una serie di flashback che rievocano momenti della vita di Dante. E fin qui nulla da dire, se non un breve commento sulla ben trita e ritrita tecnica delle due storie intrecciate.

Qualche citazione qua e là ce la si aspettava e, anzi, la si sperava. Nel film tuttavia il citazionismo oleografico spalmato su primissimi piani di Boccaccio (un Sergio Castellitto più che ordinario) o dell’Alighieri che si commuove nell’osservare l’amata che si avvia alla messa è prevedibile e ben poco efficace, per non parlare della scelta dei brani letti e malamente interpretati.

Ancor peggio quando vi è l’inserimento quasi casuale di episodi narrati attorno al fuoco del campo militare che Dante avrebbe poi eternato nelle sue cantiche, nello specifico le vicende di Paolo e Francesca ed il conte Ugolino.

Interessanti a tratti alcune scelte stilistiche: in due momenti Cesare Bastelli (direttore della fotografia) sa giocare sapientemente con i volumi, gli abiti e le luci. In un primo caso, ci pare di essere in un riquadro volumetrico di schietta ispirazione giottesca; in un secondo, una manciata di attori in abiti curiali si fondono con la finzione pittorica di un affresco alla Simone Martini.

Tra le tare del film va citato l’uso del nudo che non riesce a dissimulare uno schiumoso voyeurismo. Con il pretesto di un realismo che ci restituisca il Dante uomo in carne ed ossa, la telecamera si dilunga in varie scene di corpi nudi.

Ma non vi è nulla di significativo nell’esibire Dante che giace con prostitute, figlie di mugnai o la bionda e rotonda Gemma Donati se non l’esibizione di una spianata di seni voluminosi che al regista debbono piacere assai.

Sempre sulla scia di una restituzione della “vita vera e realistica” di Dante emergono altre pecche.

Non è facendo indugiare la telecamera sulle natiche di Alessandro Sperduti che espleta le proprie funzioni corporali che capiremo meglio l’animo politico del poeta. Non è soffermandosi su un Dante dal petto villoso in rapimento quasi mistico dopo l’incontro con Beatrice e pronto a masturbarsi che troveremo la chiave dell’umanità dell’autore della Commedia.

Non ci interessava sapere o anche solo immaginare Dante e Cavalcanti amoreggiare con due figlie di contadini nella stessa stalla, su due tavole di legno separate solo da una lurida tenda.

Il fondo si tocca con la trasposizione della visione dantesca dalla Vita Nova che lambisce lo splatter meno sofisticato.
Così chiudeva Dante il suo famoso sonetto: «Allegro mi sembrava Amor tenendo / 
meo core in mano, e ne le braccia avea
/madonna involta in un drappo dormendo.//Poi la svegliava, e d’esto core ardendo/
lei paventosa umilmente pascea:
/appresso gir lo ne vedea piangendo.»

Per questa sirma, Pupi Avati riesce malamente ad evocare un tocco caravaggesco con una macchina del fumo tossicchiante, mancando però il punto dell’amore che ancide e la ritualità quasi liturgica della donna che si pasce del cuore dell’amato.

Per quanto riguarda gli attori e attrici non ci va troppo male: Alessandro Sperduti ci presenta un’interpretazione interessante, a tratti ispirata e convincente. La diafana Carlotta Gamba – impeccabile sarebbe stata nei panni di Pia de’ Tolomei – è la perfetta (muta) donna-angelo dello stilnovo.

Quello che manca alla narrazione di questo film è ciò che forse un po’ tutti noi ci aspettavamo: un’evocazione sensibile e preziosa che sbalzasse a rilievo la levatura morale di Dante, la statura dell’intellettuale, la sensibilità del poeta, i suoi scatti d’ira, il suo essere sagace e caustico, un uomo che certo nel suo parlare seppe esser aspro e, al contempo, mirabile compositore dell’ineffabile.

Che Dante conoscesse, amasse osservare e contasse le stelle dal momento che si occupava di astrologia – attività comune per un intellettuale dell’epoca (gli oroscopi li facevano anche i curati di campagna per due capponi in più in tavola) – può essere uno spunto interessante per lo spettatore meno avvezzo alla frequentazione con i testi dell’autore.

Che si evochi per più fiate il fatto che Dante sappia i nomi delle stelle è ben poca cosa. E un modo dozzinale per chiudere un film mediocre.

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