Cultura

Bignamini torna a Toronto
per dirigere “Gianni Schicchi”

TORONTO – Maestro, cominciamo in medias res: a marzo di quest’anno aveva dichiarato che lo streaming è una grande opportunità che non allontana il pubblico. Lo pensa ancora?
«Lo penso ancora, anche perché in questo momento sono a Toronto e faccio di nuovo uno streaming dopo un po’ di tempo in cui non li facevo più. È sicuramente un valore aggiunto, per il pubblico è un’opportunità in più per usufruire dei concerti, anche nel momento in cui non può essere presente di persona. Certo, bisogna sempre offrire un prodotto di qualità, non importa il mezzo con cui si veicola il lavoro musicale e la performance».

Torniamo un po’ ai primi mesi di lockdown: qual è il significato drammatico di un teatro silente?
«Si è fermata la vita: il teatro, oltre ad intrattenere, istruisce le generazioni di oggi e quelle future. E proprio il fatto che chi istruisce abbia sofferto molto in quei lunghi mesi è un segnale che si fosse fermata la vita cerebrale. Tutti abbiamo cercato una valvola di sfogo nella musica, nei libri, nei film, nelle conferenze online e in molto altro. Il bisogno di cultura, di coltivare l’anima e la mente è molto forte».

Veniamo a parlare del prossimo Gianni Schicchi che apre la nuova stagione della Canadian Opera Company. Un’opera di ispirazione dantesca nell’anniversario dei 700 anni dalla morte del sommo poeta. Quanto conta l’ispirazione o l’evocazione letteraria all’interno di un’opera?
«Conta moltissimo, l’ispirazione letteraria è fondamentale. In queste settimane di lavorazione quando c’è qualche citazione o c’è qualche riferimento a Buoso Donati e a Dante è sempre un’occasione di scambi culturali ed arricchimento. La base dantesca del lavoro pucciniano è sempre fatta presente ai cantanti. Ho un pianista collaboratore eccezionale di origini toscane e parliamo spesso delle molte sfaccettature del testo e non solo. È importante condividerle con i cantanti che, venendo da varie parti del mondo, magari non hanno questa consapevolezza immediata. E devo dire che qui tutti vogliono sapere e saperne di più: è bello nelle prove condividere il sapere di tutti che è quello che fa il teatro».

Gianni Schicchi è probabilmente l’opera più famosa del trittico pucciniano ed è, per altro, un’opera buffa: ha un significato particolare?
«Senza dubbio: innanzitutto si ha un’opera dai toni allegri. Spesso mi trovo a dirigere opere che non finiscono bene: Bohème, Butterfly, Manon Lescaut. In questo caso devo dire che la trama così ironica alleggerisce molto, crea del buon umore nella compagnia e, per certi versi, si lavora più facilmente. Con le opere che finiscono meno bene è normale che ci si faccia prendere: psicologicamente ed emotivamente si è toccati, è più difficile trovare un senso di serenità, la tensione che porta alla catarsi finale è sempre molto intensa. In questo caso ritrovare il buon umore della e nella musica crea un’atmosfera giocosa e mette a tutti il sorriso».

Come trova i cantanti?
«Sono tutti molto disponibili ed aperti a nuove idee, a capire sempre di più il testo che non è semplice: non essendo italiani alcune cosa vanno spiegate anche nei dettagli. Io sono sempre felice di poter condividere quel poco che so e qui ho trovato delle persone curiose».

Cosa ci può dire della regia?
«Cose ottime: è una regia che trovo funzionare, molto intelligente anche dal punto di vista musicale. Amy Lane è una regista inglese che è riuscita a coinvolgere tutti, dai cantanti ai tecnici al sottoscritto. Ha pensato ad un allestimento diciamo tradizionale ma, allo stesso tempo, moderno. È una regia molto dinamica. Tutto inoltre è stato studiato in modo minuzioso proprio perché verrà dato in streaming anche con inquadrature ravvicinate. In teatro di solito vediamo gli artisti a 20-30 metri, alcuni dettagli non si notano tanto che non si lavora ogni scena minuziosamente. Questa volta il lavoro è davvero cinematografico, una cosa che apprezzo molto soprattutto in un’opera con così tanti personaggi. La rende fresca, dinamica, moderna».

Gianni Schicchi, Lauretta e Rinuccio come li ha trovati?
«Sono molto azzeccati. Roland Wood ha una voce importante unita a delle doti attorniati notevoli: gioca bene con la voce ed ha un linguaggio del corpo incredibile. Di Hera Hyesang Park (Lauretta) mi ha impressionato la quantità di voce, soprattutto in una cantante così minuta. È molto musicale ed è molto curiosa e disponibile. Andrew Haji (Rinuccio) è un tenore lirico un po’ leggero con una bella musicalità ed una dizione praticamente perfetta. Anche il resto della compagnia è notevole: ad esempio, Megan Latham (Zita) è brava con la voce ed è un’ottima attrice».

Perché alcune arie d’opera sono così famose, come la preclara, proprio nel Gianni Schicchi, “O mio babbino caro”?
«Nel repertorio operistico ci sono arie che sono diventate famosissime per almeno un paio di motivi: prima di tutto, chi le ha cantate la prima volta le ha cantate molto bene. E poi c’è l’ispirazione melodica che arriva subito al pubblico. Sono brani orchestrati a dir poco magistralmente: sono arie che valorizzano l’orchestra e la tessitura della voce, non c’è mai una nota fuori dal registro vocale di chi la canta. È un’alchimia irripetibile che nasce da un’ispirazione molto felice, un connubio che parla in maniera immediata al pubblico. A volte non c’è un perché ed è questa la magia dell’opera».

More Articles by the Same Author: