BRIGHTON – Nella notte del 2 gennaio, ci ha lasciato a 84 anni un grande intellettuale italiano: Gianni Celati. Nato a Sondrio nel 1937 da genitori di Ferrara, Antonio Gnoli ricorda lo scrittore in un’intervista di Repubblica con un aneddoto che vuole esprimere “il tumulto” caratteristico della sua vita “fatta di sbagli, ma altresì di cose bellissime, di passioni travolgenti”, e racconta di un Gianni adolescente che, innamorato di una ragazza tedesca, grazie a una colletta raccolta dagli amici la segue ad Amburgo, dove rimarrà nove mesi con l’aiuto del fratello Gabriele.
Un tumulto che Celati riversa nel panorama culturale italiano dove la sua personalità eclettica spicca in numerosi campi: docente universitario, scrittore di romanzi e novelle, critico letterario, giornalista e opinionista, traduttore e regista di documentari. È forse questa versatilità che lo accomuna a un autore a lui caro e che lo ha accompagnato per tanta parte della sua vita: James Joyce. A questo autore Celati dedica la sua tesi di laura in letteratura inglese e a lui deve il soprannome di “Joyce” che il suo professore universitario Carlo Izzo gli aveva dato. Porta la firma di Gianni Celati anche la traduzione dell’Ulisse pubblicata da Einaudi nel 2013: “un’immane fatica che avrebbe compromesso il suo stato di salute”, commenta Franco Marcoaldi su Repubblica.
Il rapporto tra Celati e la casa editrice Einaudi risale ai suoi esordi di scrittore: il romanzo Comiche esce per Einaudi nella collana sperimentale “La ricerca letteraria” nel 1971 con una nota di Italo Calvino. Tra i due si instaurerà una profonda amicizia che Nunzia Palmieri sigilla con questo episodio raccontatogli dallo stesso Celati: “Quando Calvino veniva in Italia da Parigi, per andare a lavorare da Einaudi, una settimana al mese, mi telefonava tutti i giorni e ci scambiavamo idee. Io avevo la borsa di studio a Londra e viaggiavo con una macchina scassata: un camion mi aveva tamponato e la portiera mi arrivava fino alla spalla. Ma con quella macchina andavo avanti e indietro una volta ogni tre o quattro mesi e, passando da Parigi, mi fermavo a dormire da Calvino”.
A Bologna, Celati inizia a insegnare al Dams dove ottiene la cattedra di letteratura angloamericana. Trai suoi studenti si annoverano intellettuali come Pier Vittorio Tondelli, Enrico Palandri, Andrea Pazienza e Freak Antoni. In questi anni la sua attività di accademico, critico e traduttore di James Joyce, Mark Twain, Joseph Conrad, Roland Barthes si intensifica, giungendo anche all’estero, dove insegna all’Université de Caen e alla Brown University di Providence. Una volta ritiratosi dall’insegnamento si trasferisce a Brighton, in Inghilterra, con sua moglie, per dedicarsi interamente alla scrittura.
Quest’ultima infatti rappresenta la passione dominante e il filo conduttore che lega le sue esperienze, nonostante Celati non si fosse mai considerato uno scrittore professionista. Per Einaudi pubblica Le avventure di Guizzardi (1972), La banda dei sospiri (1976) e Lunario del paradiso (1978). Tra gli ultimi volumi di narrativa e saggistica degli ultimi decenni ricordiamo Finzioni occidentali (Einaudi 1975/2001), Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985), Quattro novelle sulle apparenze (Feltrinelli 1996), Verso la foce (Feltrinelli, 1992) Avventure in Africa (Feltrinelli, 1998, premio Comisso), e poi racconti come Cinema naturale (Feltrinelli, 2001, Premio Chiara), Fata Morgana (Feltrinelli, 2005, Premio Selezione Campiello, Premio Napoli, Premio Flaiano) e Vite di pascolanti (Nottetempo, 2006, premio Viareggio) per nominarne solo alcuni.
Oggi rimangono le sue parole e l’esempio raro di un intellettuale che considerava la scrittura un dono, un “atto gratuito”, frutto di una necessità interiore, non finalizzata a uno scopo al di là della scrittura stessa, e per questo indirizzata a tutti coloro che vogliono ascoltare ma a nessuno in particolare. Lasciando la parola a Gianni Celati: “si scrive per passare le serate, per coltivare l’interiorità, perché la gratuità è fonte di contentezza. Invece ora pare che si scriva soltanto per fare colpo sul pubblico, per vendere copie, avvinghiati ai fatti e all’attualità, perdendo così completamente la dimensione avventurosa della scrittura, la sua potenza immaginativa. In fondo, scrivere racconti, favole, novelle, sonetti, è come spedire delle lettere. Anche se mi rendo conto che non è più tanto chiaro a chi queste lettere sono indirizzate”.
Teresa Valentini