Cultura

L’ultimo Paradiso e il costo della libertà

Nella tradizione della tragedia greca, “L’ultimo Paradiso” ci incanta con immagini romantiche – in questo caso la campagna pugliese – e alla fine conduce lo spettatore attraverso le sue rappresentazioni a volte violente di traumi familiari irreparabili.

Film realizzato da Netflix in associazione con Mediaset, “L’ultimo Paradiso” ha come protagonista il pugliese Riccardo Scamarcio, che ha anche prodotto e co-sceneggiato il film insieme al regista Rocco Ricciardulli. Il film è ambientato negli anni ’50, nell’Italia meridionale del dopoguerra, uno sfondo inondato di verità scomode su grave oppressione, sfruttamento e criminalità violenta, ma non per questo meno stimolante per le storie dei sopravvissuti.

I co-sceneggiatori Scamarcio e Ricciardulli hanno attinto dalle proprie esperienze culturali, raccomandando al cast di parlare dialetto regionale e attingendo alle storie familiari che il regista ha ascoltato crescendo. Tematicamente ricco e a volte disordinato, il film è anche un’esperienza visivamente coinvolgente. È un viaggio nostalgico, ma solo per un pubblico disposto a sopportare i cambiamenti delle stagioni.

La storia segue Ciccio Paradiso, figlio di braccianti poveri che vivono nell’Italia rurale meridionale. Il suo sogno di trasferirsi al Nord con il suo nuovo amore Bianca (Gaia Bermani Amaral) prende una svolta tragica quando si ritrova coinvolto in una violenta faida con il padre di lei, un avido proprietario terriero (Antonio Gerardi). Quando parla di ciò che il pubblico potrebbe estrarre dal messaggio del film, Ricciardulli dice: “Il desiderio e il bisogno di parlare apertamente, di denunciare in modo meno caotico [di Ciccio] ma di parlare apertamente”.

Ciccio e Bianca sono vittime del loro tempo, sfortunati non solo romanticamente ma anche per l’incapacità di realizzare un sogno, una vita senza povertà e gravi ingiustizie – una vita come quella di suo fratello Antonio a Milano. La lotta di Bianca per emanciparsi dalle molteplici dimensioni della tirannia di suo padre, non ultima quella che include lo stupro di giovani ragazze, preannuncia all’orizzonte una lotta più grande per le donne.

“L’ultimo Paradiso” non è per i deboli di cuore. È una rappresentazione cruda della lotta tra i contadini senza terra nell’Italia rurale e le classi dirigenti possidenti, in particolare nell’Italia meridionale dell’epoca. È un buon promemoria per interrompere la navigazione sui social media, aprire un libro di storia e conoscere le condizioni che hanno spinto molti italiani a emigrare in America (e altrove), non solo in cerca di salari e condizioni di lavoro migliori, ma per l’opportunità di possedere la terra, le proprie attività e ricominciare da capo con le proprie famiglie.

Le storie dei nostri antenati e parenti sono spesso romanticizzate e i dettagli – alcuni dei quali includevano brutali sacrifici per le libertà conquistate – omessi. Il film offre gran parte di questo attraverso una situazione di romanticismo travagliato, un simbolo appropriato per i tempi turbolenti. Una turbolenza o “anarchia” che forse è normale quando si persegue la libertà, secondo il co-sceneggiatore e protagonista Scamarcio: “C’è anche una necessità, una libertà esercitata senza pensare alle conseguenze.

Cioè, la vera libertà. In un certo senso l’amore è una forma di vera anarchia. Perché sovverte ogni desiderio logico ed è un impulso inarrestabile”.

Dove guardare L’ultimo Paradiso: Netflix

Massimo Volpe, autore di questa recensione, è un filmmaker e scrittore freelance di Toronto: scrive recensioni di film/contenuti italiani su Netflix

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