Interviste

Marco Pontecorvo
si racconta,
da ‘Pa-ra-de’
a ‘Per Elisa – Il caso Claps’

TORONTO – Passione, talento e una insaziabile curiosità sono alla base delle opere di Marco Pontecorvo, regista, attore, produttore, sceneggiatore, fotografo. Figlio del famoso regista Gillo, ha debuttato nel cinema come direttore della fotografia – tra i suoi lavori più celebri ricordiamo ‘Roma’, ‘Il Trono di Spade’, ‘Letters to Juliet’ e ‘L’ultima legione’ – per poi dedicarsi all’attività di regista: Pa-ra-da, uscito nel 2008, ha segnato l’inizio della sua carriera dietro la macchina da presa. Seguono film che analizzano temi e problematiche della società come ‘L’oro di Scampia’ (2014), ‘Ragion di Stato’ (2015), ‘Tempo instabile con probabili schiarite’ (2015), ‘Lampedusa’ (2016), ‘Il coraggio di vincere’ – film TV (2017), ‘Nero a metà’ (2018-2020), ‘Fatima’ (2020), ‘Alfredino – Una storia italiana’ (2021), ‘A muso duro – Campioni di vita’ (2022) e ‘Per Elisa – Il caso Claps’ (2023).

Il regista, che si trova a Toronto in questi giorni, ha concesso una intervista al Corriere Canadese.

Il suo è stato un inizio come direttore della fotografia. Come è avvenuto il passaggio alla regia?
“Da piccolo volevo fare il regista ma ero anche appassionato di fotografia e su consiglio di mio padre iniziai con la fotografia. Dopo tanti anni mi innamorai di una storia di un clown francese che lascia Parigi per Bucarest dove doveva rimanere due mesi in tournée per fare spettacoli per i bambini ma che, dopo aver conosciuto i bambini di strada che vivono nei tunnel dove passa l’acqua calda sotto tutta la città, ha il sogno di ridare loro una possibilità e quindi rimane lì per 12 anni. La storia mi ha affascinato ed è stato proprio con Pa-ra-da che è avvenuto il mio passaggio alla regia”.

Avere un papà famoso regista quanto ha influito nella sua decisione di seguire le sue orme?
“Ha influito sì, perché cresci in una famiglia dove si parla di quello, arrivavano a casa personaggi come Rosi, Fellini, Montaldo che erano grandi amici di papà, guardavo i loro film, era inevitabile esserne influenzati”.

Si è sentito quindi un privilegiato in questo senso?
“Sì, solo ad aver ascoltato queste persone, perché erano molto interessanti. Allo stesso tempo all’inizio ero inibito perché per me i modelli erano quelli e mi chiedevo se ero all’altezza. La risposta, soprattutto se si è giovani, è no. Erano i maestri del passato, poi vedi altri modelli, cominci ad acquistare sicurezze e pensi di poterci provare anche tu”.

I suoi film sono tutti impegnati nel sociale.
“Scelgo storie, a volte mi vengono proposte, che mi emozionano e che possano emozionare, che siano sia intrattenimento ma che facciano anche pensare, che magari facciano fare anche un piccolo passo avanti. Questo in generale lo trovi in storie che parlano del sociale, in storie che in qualche modo – anche in negativo, sono esemplari. Il cinema, in questo senso, è anche di denuncia. Le storie legate al sociale mi emozionano e penso che possano emozionare e possano far fare una riflessione a tutti su temi importanti”.

Quale tema sociale, e quindi quale film, sente con maggiore intensità?
“Non amo avere figli e figliastri, alcuni li sposi di più altri di meno. Forse perché era il primo e quindi doveva avere una spinta importante, Pa-ra-da è una delle storie che mi ha colpito di più. Mi è piaciuto tantissimo anche tornare su una storia che ci ha colpiti tutti come quella di Alfredino Rampi. È stata la prima diretta tv, interruppero tutte le trasmissioni, per assurdo segnò quasi l’inizio dei reality. Ho a cuore anche Per Elisa, la storia di Elisa Claps, 17 anni di lotta di Gildo e di Filomena per arrivare alla verità e alla giustizia. Perché ci sono voluti 17 anni per una verità che era lì, a portata di mano”.

Come è stato girare un film come Lampedusa?
“Lampedusa è stata una esperienza bella e forte perché l’abbiamo proprio vissuta, siamo entrati negli hotspot, abbiamo parlato con la direttrice, toccato con mano la situazione. Era un altro tema caldo, scottante che noi abbiamo tentato di raccontare con verità ma anche semplicità perché per trattare temi importanti su Rai 1 che è un’ammiraglia e si rivolge a un pubblico generalista devi trovare sempre la chiave giusta. La Boldrini ci convocò alla Camera e ci disse che il tema era stato ben affrontato, ben raccontato”.

Parliamo di Fatima. Perché ha sentito l’esigenza di fare questo film?
“Il nostro rapporto con la religione, con la spiritualità è importantissimo. Sono domande che ti poni e fai sì che si ponga il pubblico, la storia oltre che fare emozionare per le vicende di Lucia, pone di fronte a questi temi, mi sembrava interessante. Ho letto la sceneggiatura originale che era dogmatica, fuori dal reale, non la sentivo come un film mio e quindi dissi chiaramente che non l’avrei girata. La cambiai, dissi vorrei che questo film diventasse di tutti, di chi crede e di chi non crede perché la storia in sè ha qualcosa di importante. Il fatto stesso che Lucia ha riempito una collina, ha radunato persone che pregavano per la pace, per la fine della guerra, c’era una energia positiva della società per porre fine alla follia che era la prima guerra mondiale. Che una ragazzina in tempi in cui non c’erano i social media raduni una cifra gigantesca di persone è positivo per tutti suppongo, è qualcosa su cui riflettere. C’erano quindi tanti elementi anche non religiosi che mi facevano avvicinare a questa storia. Non è un film sulla religiosità ma sulla spiritualità”.

Progetti futuri?
“Ne ho svariati in cantiere tra i quali un film sul rapimento di Cesare Casella, sulla sindrome di K, la malattia fittizia grazie alla quale i medici del Fatebenefratelli di Roma misero in salvo decine di ebrei, nel 1943, durante la razzia nel Ghetto e altri ancora”.

Nella foto in alto, il regista Marco Pontecorvo negli uffici del Corriere Canadese e, qui sopra, con Maria Alzira Lima del Correio Canadiano

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