Mitt Romney, multimilionario, candidato presidenziale repubblicano nel 2012 e attuale senatore dell’Utah, non è stato entusiasta della proposta democratica di aumentare le tasse ai miliardari. Secondo Romney, tassare il patrimonio degli ultraricchi li costringerebbe ad allontanarsi dagli investimenti in borsa concentrando i loro soldi in “fattorie o quadri” che non creano posti di lavoro.
La difesa dei miliardari da parte di Romney è ovviamente molto debole poiché gli investimenti in borsa, possibilmente rischiosi, creano profitti ma pochissimi o nessun posto di lavoro. Ecco perché la maggior parte dei miliardari sono rimasti silenziosi.
Una rara eccezione è stato Elon Musk, padrone di Tesla, il quale ha recentemente oltrepassato Jeff Bezos di Amazon, divenendo il più ricco al mondo. Musk ha twittato che dopo dei benestanti i democratici busserebbero alla porte degli altri per aumentare le tasse a tutti. La proposta dei democratici non è ancora completamente sviluppata e quindi non ha scatenato un campanello di allarme ad altri miliardari. Si tratta però di una misura considerata seriamente dai democratici per trovare le coperture al piano di 1700 miliardi di dollari necessari per la proposta sulle infrastrutture “soffici”. In realtà include l’esplorazione fiscale di parecchie strade ma quasi tutte vertono sul concetto di fare pagare gli ultraricchi e ridurre in maniera leggera il crescente gap creatosi fra benestanti e classi meno abbienti.
Un’idea suggerita con insistenza è quella di tassare le plusvalenze degli ultraricchi che ammassano il loro patrimoniale specialmente nella borsa. Questi guadagni non vengono tassati finché il proprietario non vende i titoli. In effetti, le più grandi fortune dei Paperoni avvengono mediante gli incrementi in borsa. Ecco come Musk è riuscito a battere Bezos con un patrimonio valutato a 270 miliardi di dollari comparato a 197 per il padrone di Amazon. Negli ultimi tempi le tasche di Musk si sono gonfiate di 80 miliardi. Bill Gates di Microsoft è vicinissimo a 136 miliardi e Larry Page di Google a 125 miliardi. Questi investimenti non vengono tassati fino alla loro vendita senza però impedire a questi individui di trarre notevoli vantaggi. Usano il valore degli investimenti per farsi erogare prestiti che gli permettono di condurre una vita lussuosa e spesso stravagante limitando allo stesso tempo le loro responsabilità fiscali.
Le tasse pagate da questi individui e le loro aliquote sono ridicole e persino più basse di quelle dell’americano medio. L’ultra ricco Warren Buffett ha riconosciuto parecchie volte che la sua aliquota è inferiore a quella della sua segretaria. Negli ultimi 3 anni Amazon ha riportato 45 miliardi di profitti, 20 dei quali realizzati l’anno scorso, pagando solo il 4,3 percento di tasse comparato al 13 percento per l’americano medio. Secondo la Casa Bianca, Bezos, l’individuo, ha pagato meno dell’uno percento di tasse fra gli anni 2012-2018. Tassare questi patrimoni anche se non completamente e definitivamente realizzati fornirebbe alle casse del tesoro quasi 500 miliardi di dollari, un terzo delle spese programmate dal piano delle infrastrutture “soffici”. Infatti, il semplice totale dei dieci individui più ricchi in America aumenterebbe le casse del fisco americano di 276 miliardi di dollari. Il problema in tassare questi patrimoni potrebbe essere la legalità. Il 16esimo emendamento ritiene che le tasse vanno pagate sui redditi reali. Se il patrimonio in borsa è in flusso bisognerebbe aspettare fin quando il valore diventi definitivo.
Un’altra strada per colpire gli ultraricchi e coprire almeno in parte le spese del piano democratico sulle infrastrutture sarebbe di aumentare le imposte sul reddito e le plusvalenze degli ultra ricchi. Si sta esplorando un aumento del 5 percento agli individui con redditi superiori a 10 milioni annui e un addizionale 3 percento verrebbe aggiunto a quelli con reddito superiore a 25 milioni. Questa strada fornirebbe 550 miliardi di fondi. Si sta esplorando anche l’idea di fare pagare una tassa minima del 15 percento alle corporation americane con profitti annui di un miliardo all’anno, com’è stato accordato al livello globale dal G20 recentemente.
Gli ostacoli per questi aumenti di tasse agli ultraricchi sono sempre gli stessi: due senatori democratici, Kyrsten Sinema (Arizona) e Joe Manchin (West Virginia). La Sinema si oppone agli aumenti di tasse alle corporation e gli individui senza riguardo al reddito o profitti anche se ha indicato accettabile la tassa minima di 15 percento alle corporation. Manchin è contrario agli aumenti degli ultraricchi anche se ha mostrato qualche flessibilità, preoccupandosi delle coperture e dei possibili deficit. Considerando il fatto che i repubblicani sono solo interessati ad ostruire e mai disposti ad aumenti alle imposte e il “pareggio” al Senato (50 a 50), i democratici devono essere tutti d’accordo. In tal caso la vicepresidente, la democratica Kamala Harris, potrebbe qualificare al voto e fare pendere la bilancia a loro favore. In effetti, Sinema e Manchin con le loro riserve sono riusciti a frenare l’agenda legislativa democratica.
Ciononostante i sondaggi indicano che una buona maggioranza degli americani supporta aumenti alle tasse ai benestanti. Lo si capisce anche con gli eccessi di alcuni di questi miliardari come Musk e Bezos e le loro costosissime “passeggiate” nello spazio che formano un grande contrasto con gli americani che stentano ad arrivare a fine mese.
L’ex presidente americano Donald Trump, responsabile di ingenti tagli fiscali che hanno beneficiato le classi abbienti nel 2017, è ovviamente contrario ad aumenti fiscali a miliardari. Anche lui potrebbe essere colpito nonostante il fatto che il calo del suo patrimonio ha costretto la rivista Forbes a eliminarlo dalla lista dei 400 americani più ricchi. Poco dopo essere stato informato dei piani democratici sulle tasse, il 45esimo presidente ha suggerito che potrebbe andare via dagli Stati Uniti per evitare di pagarle. Se firmasse un contratto di andare via, i democratici gli comprerebbero un biglietto solo andata. Dasvidaniya?
Domenico Maceri
Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications