Cultura

In conversazione
con Oiza Queens Day Obasuyi

TORONTO – In occasione della presentazione del suo libro Corpi estranei (People 2020), durante “Librissimi – Toronto Italian Book Festival” lo scorso 8 maggio, abbiamo intervistato Oiza Queens Day Obasuyi, scrittrice freelance, autrice e dottoressa magistrale in International Relations. Obasuyi si occupa di migrazioni e diritti umani. Ha scritto per The Vision, Internazionale e Jacobin Italia. Nata nel 1995 ad Ancona, è italiana di origine nigeriana. Nella giornata di apertura dell’edizione del festival letterario di quest’anno, tenutasi online, Obasuyi e il Professor Gaoheng Zhang della University of British Columbia hanno parlato di razzismo sistemico e di antirazzismo in Italia e in Nord America.

In Corpi estranei scrivi che “in Italia lo spazio dedicato agli afro-discendenti – o alle persone di origine straniera in generale – e alla narrazione del loro rapporto con il nostro Paese è quasi del tutto inesistente”. Cosa vorresti che capissero le persone che leggono il tuo libro?
«Quando parliamo di razzismo non ci riferiamo solo alla definizione che troviamo sui dizionari, ossia forme esplicite di aggressione contro persone sulla base del colore della pelle, della provenienza o della religione. Il razzismo è qualcosa di più complesso da decifrare, è sistemico e sociale e può essere perpetrato non solo da singoli individui, ma anche da istituzioni di qualsiasi schieramento politico. Pensiamo alle leggi che ancora oggi in Italia costringono le persone migranti a vivere in una condizione di irregolarità e sfruttamento o alle leggi che rendono estremamente difficile l’ottenimento della cittadinanza per i ragazzi e le ragazze nate e cresciute in Italia. Il razzismo non si manifesta solo nelle forme di attacchi violenti conto le persone nere, come l’episodio commesso a Macerata nel 2018. Questi sono solo la punta dell’iceberg. Dobbiamo scoprire tutto quello che c’è sotto la superficie. Pensiamo, in particolar modo, all’aspetto culturale del razzismo e a come le persone afro-discendenti vengono rappresentate in TV e nei media italiani, ai modi di dire e agli stereotipi che si riversano contro di loro e contro altri gruppi etnici. Questi stereotipi hanno retaggi storici nel colonialismo italiano, il cui strascico non è stato ancora opportunamente a¡rontato nel dibattito nazionale. L’aspetto culturale del razzismo è uno dei più di.cili da scardinare perché è strutturale e capillare, riguarda tutti, non solo le persone apertamente razziste ma anche quelle che si dichiarano non razziste e che, se gli viene fatta notare la problematicità di un loro atteggiamento o frase, alzano un muro, si mettono sulla difensiva negando di aver commesso o detto qualcosa di razzista. Spero che Corpi estranei possa contribuire a fare luce su questi aspetti del razzismo in Italia».

Descrivi molteplici forme di razzismo nel tuo libro, da quelle più violente ad altre più subdole, e per questo ancora più comuni, che avvengono quotidianamente in Italia.
«Ci sono diverse forme di razzismo che si verificano in Italia. Per espandere la risposta precedente, ad esempio, l’a.tto che ti viene negato dal proprietario di casa quando vede il colore della tua pelle e ti dice “pensavo fossi italiana quando abbiamo parlato al telefono”, o quando, alla fine di una conversazione, il tuo interlocutore si complimenta con te per il tuo italiano nonostante tu abbia sempre vissuto in Italia. Molti di questi episodi, che all’apparenza sembrano dettati dalla “buona fede” dell’interlocutore, dimostrano invece tutto il loro razzismo, perché rivelano chi ancora oggi è immaginato come italiano o italiana e chi no. Abbiamo esempi anche in TV, come quei programmi in cui vengono invitate a parlare di razzismo solo persone bianche, e molto spesso tutti uomini, o in cui, al massimo, viene invitata solo una persona appartenente a una minoranza, come se questa bastasse a rappresentare tutte le altre. Queste (micro-) aggressioni si verificano giornalmente e spesso sono perpetrate proprio da persone che non si considerano razziste».

Ti sembra che negli ultimi tempi si stia avviando un cambiamento nel dibattito sul razzismo in Italia?
«Sicuramente le nuove generazioni sembrano più attente alla questione. Specialmente dopo l’omicidio di George Floyd, sembra che l’Italia si sia svegliata all’improvviso sul tema del razzismo. Se da un lato questa attenzione aiuta la causa, dall’altro mi chiedo se fosse necessaria una morte accaduta dall’altra parte dell’oceano per farci rendere conto del razzismo nel nostro Paese. Sui social media vedo più partecipazione, è vero, ma questa deve trasformarsi in mobilitazione reale e pressione sociale sulle istituzioni. Dobbiamo portare questa attenzione al di fuori del virtuale in modo attivo e partecipativo. C’è ancora moltissimo da fare e dobbiamo farlo ascoltando la pluralità delle voci delle minoranze coinvolte».

Si parla spesso oggi, non solo in Italia, di “dittatura del politicamente corretto”. Cosa ne pensi?
«Spesso coloro che parlano di questa fantomatica censura sono persone sedicenti moderate che si sentono private della possibilità di dire cose che oggi studiosi e studiose, attiviste e attivisti denunciano come o¡ensive. Queste attiviste e attivisti sottolineano come in Italia siamo molto indietro nel modo in cui ci si rivolge alle minoranze etniche, alle persone di orientamento sessuale diverso e alle donne. È interessante notare come, in realtà, quelli che si lamentano di “non poter dire più niente” non solo dicano tutto quello che vogliono ma lo facciano anche usando tutte le piattaforme principali e più popolari per lamentarsi della censura che si abbatterebbe contro di loro».

Oltre al tuo impegno intellettuale e sul campo, sei anche molto attiva sui social media. Proprio i social sembrano oggi essersi fatti cassa di risonanza per le istanze antirazziste. Che ruolo possono avere in questa trasformazione culturale?
«Indubbiamente i social media fanno da megafono alle istanze antirazziste ma essi hanno anche dei limiti. Oggi è comune leggere la parola “attivista” sui profili social, ma spesso questo attivismo è solo performativo e di facciata. Non sempre si traduce in un’azione volta a un e¡ettivo cambiamento. Spero che i miei contributi sui social media possano aiutare a riflettere, ma mi rendo conto che da soli essi non bastano. Dobbiamo trasformare le informazioni, la presa di coscienza, la divulgazione scientifica e sociale che circolano sui social media in azioni concrete. La lotta antirazzista riguarda i diritti civili e sociali di tutte e tutti. Se qualcuno non è libero, di conseguenza non lo sono nemmeno io. Per questo, è importante mettersi in ascolto per capire quali sono le problematiche che ci circondano. Senza ascolto non c’è comprensione. Ascoltare, però, è solo l’inizio; dobbiamo agire concretamente e continuamente per produrre un cambiamento, ovviamente ognuno in base alle proprie possibilità, specialmente durante la pandemia in corso».

Quali progetti hai per il futuro?
«Domanda difficile! Mi sono laureata a febbraio di quest’anno in International Relations. Vorrei continuare a lavorare sulle migrazioni e i diritti umani, magari come operatrice sociale in progetti di accoglienza. Mi interesserebbe anche portare avanti questo lavoro in una carriera accademica, come ricercatrice, o come giornalista. Al momento sto valutando diversi percorsi».

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