TORONTO – La guerra uccide, divide e dissemina odio. Un odio che non risparmia nessuno, vivo o morto che sia. Che dilaga offuscando le ragioni che ci hanno insegnato, in questi anni di apparente civilizzazione, a non giudicare nessuno semplicemente dal luogo da cui proviene, dalla lingua che parla e in cui scrive.
La guerra in Ucraina in questo senso non fa eccezione: ha creato un odio che è straripato ben al di là degli argini che lo dovevano mantenere circoscritto a chi questo odio se lo merita veramente. Invece, ha attaccato indiscriminatamente la letteratura e i suoi esponenti, anche e soprattutto coloro che con questo conflitto non hanno nulla a che fare.
Così a Milano una settimana fa, l’università Bicocca chiedeva allo scrittore e studioso di letteratura russa Paolo Nori di rinviare un ciclo di lezioni sul romanziere russo Fëdor Dostoevskij “per evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione.”
Scandalizzato, Nori non ha mancato di polemizzare sui social che sono implosi. “Che un’università proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa a cui non posso credere” commenta Nori. “Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, ma anche essere un russo morto, che quando era vivo nel 1849 è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita, lo è.”
Nel fiume delle polemiche, la Bicocca è successivamente corsa ai ripari con una rettifica, in cui si stabiliva che il ciclo di lezioni si sarebbe tenuto nelle date e ore previste e che avrebbe discusso i temi originariamente concordati con lo studioso, e precisando, inoltre, che “Milano-Bicocca è un ateneo aperto al dialogo e all’ascolto anche in questo periodo molto difficile che ci vede sgomenti di fronte all’escalation del conflitto. Il corso dello scrittore Paolo Nori si inserisce all’interno dei percorsi ‘Bbetween writing’, percorsi rivolti a studenti e alla cittadinanza che mirano a sviluppare competenze trasversali attraverso forme di scrittura.”
A parte il dietrofront e la figuraccia, il caso della Bicocca ha messo in luce il problema scottante di episodi di cancel culture che si stanno diffondendo in Europa e da cui nemmeno l’Italia, evidentemente, è immune.
Un altro caso, questa volta verbale ma non meno grave, ha coinvolto Leonardo Fredduzzi, vicedirettore dell’Istituto di lingua e letteratura russa a Roma. L’Istituto non è un ente ufficiale russo e si è dichiarato contrario alla guerra, incoraggiando anzi donazioni alla Croce Rossa presente nel Donbass dal 2014, ma questo non è bastato a difenderlo dai messaggi di odio che lo hanno investito: “Ci hanno scritto che la lingua russa è morta, che tutta la cultura russa esprime sopraffazione, anche i grandi classici.”
Eppure, misure meno oscurantiste che ci tengano a mandare un segnale senza che i singoli artisti, editori e scrittori vengano necessariamente e indiscriminatamente coinvolti si potrebbero trovare. La Bologna Children’s Book Fair ha dichiarato di sospendere con effetto immediato ogni collaborazione con le organizzazioni ufficiali russe per la partecipazione alla fiera. Di conseguenza, il padiglione russo mancherà alla Fiera di Bologna, la più importante del mondo per la letteratura dell’infanzia, che si terrà il 21 e il 24 di questo mese. Marco Momoli, direttore BU Cultura di BolognaFiere, specifica tuttavia che ciò non significa che “un editore russo indipendente, un autore o un illustratore russo non potrà partecipare alla manifestazione. Al contrario, noi siamo ben felici di accogliere gli stand degli editori russi indipendenti.”
In maniera simile, al Salone del Libro di Torino mancheranno delegazioni ufficiali, enti o istituzioni direttamente legate al governo russo. Il boicottaggio non si rivolge però “a libri o autori russi, discussioni o lezioni sulla cultura e la letteratura russa, all’interno di un programma ispirato ai temi della pace, del dialogo, dell’amicizia tra i popoli, le arti, le culture.”
I casi di boicottaggio della cultura legata alle istituzioni russe non si limitano alla sola narrativa. La Russia non sarà più il paese ospite del festival Fotografia Europea che si dovrebbe tenere tra fine aprile e giugno a Reggio Emilia. Il festival avrebbe dovuto ospitare la mostra Sentieri di Ghiaccio in collaborazione con il museo Ermitage, in cui sarebbero comparsi i lavori di tre fotografi russi. Il direttore della Fondazione Magnani Rocca, che organizza l’esposizione, ha dichiarato come ora “non sia possibile alcuna interlocuzione con le istituzioni di un Paese che in questo momento è aggressore.”
Sulle stesse orme, la Galleria dell’Accademia di Firenze ha cancellato il prestito di opere dal Museo Puškin di Mosca per non correre il rischio di strumentalizzazione; mentre il direttore degli Uffizi, sebbene non chiuderà il Museo delle Icone Russe a Palazzo Pitti, ammette che l’embargo economico si estenda anche al prestito di opere d’arte.
Il boicottaggio è tradizionalmente una forma di protesta senza armi, ma mai disarmata: nelle mani sbagliate può comunque far pagare a tanti innocenti le colpe di pochi. Allo stesso modo, la cancel culture, quando viene impugnata sulla base dell’appartenenza di determinate forme ed espressioni artistiche a un certo popolo, è una forma di discriminazione ingiustificata che critica forme dittatoriali sfruttandone gli strumenti. L’arte dovrebbe essere un ponte tra popoli e non un ennesimo campo di battaglia da cui nessuno mai esce completamente vincitore.
Teresa Valentini