Cultura

Siculiana, “Gesù nero”
vicino al centro rifugiati

TORONTO – A Siculiana (Agrigento), il 3 maggio è la festa del “Gesù nero”, il crocifisso miracoloso custodito nella Chiesa madre. A cinque minuti di camminata dal Crocifisso, il centro d’accoglienza Villa Sikania. A far incontrare questi due mondi vicini ma apparentemente inconciliabili è Edward, un diciannovenne ghanese che nel 2019 chiede di poter portare anche lui in processione quel Gesù nero insieme ai siculianesi.

Questa storia semplice quanto potente è al centro del film-documentario del 2020 “A Black Jesus”, di Luca Lucchesi (co-prodotto da Wim Wenders, musiche di Roy Paci), che questa settimana arriva per la prima volta in Canada nella cornice del prestigioso festival Hot Docs. Ne parliamo con il regista, in collegamento da Berlino.

Luca, il culto del Gesù nero di Siculiana, al centro del documentario, è qualcosa con cui tu avevi familiarità fin da bambino? «Sì, Siculiana è il paese di mio padre, sono praticamente cresciuto per metà lì. A casa mia Gesù era nero, anzi mi faceva strano vederlo bianco. Ogni 3 maggio andavamo a questa processione (mio padre era molto devoto), anche i miei ricordi da piccolo sono questi grandi ammassi di persone, i vicoli dove non si cammina, le giostre… è una delle basi portanti del mio background da siciliano. Ma non l’avevo mai vista col significato che ha poi preso nel film».

Cioè il paradosso evidenziato sin dalle prime battute del documentario: « Alla gente del posto non piacciamo noi neri, però amano questo Gesù nero». «Come tutti i paradossi, credo che riesci a capirlo solo quando sei fuori, anche a livello geografico. Io da dodici anni abito a Berlino, in un certo senso vivo quindi anch’io la condizione del migrante – certo, migrante privilegiato. Ma ci sono arrivato veramente solo il giorno in cui, dopo la morte del mio papà, sono entrato nel santuario di Siculiana e ho visto questo gruppetto di ragazzi africani pregare ai pedi del Gesù nero. Un’immagine talmente forte da non avere bisogno di spiegazioni. Avrei voluto che la vedesse tutto il paese, dove in quei giorni c’erano le manifestazioni contro il centro d’accoglienza di Villa Sikania (si era all’apice della fortuna politica della Lega in Sicilia). Poi ho pensato che quest’immagine avrebbero dovuto vederla veramente tutti: allora ho deciso di seguire questi ragazzi dove mi avrebbero condotto, e quello è stato l’inizio della storia».

Approfitto dell’accenno alla Lega di Salvini per chiederti del discorso politico che, per quanto secondario, filtra spesso nel film, anche in modo molto esplicito. «Inizialmente la cronologia del documentario (girato tra il 2017 e il 2019) corrispondeva precisamente alla campagna elettorale, le elezioni, i decreti sicurezza… ma a un certo punto mi sono reso conto che quel film non era importante, non era emozionante, e poi avrebbe dato troppo spazio a Salvini. Allora ho eliminato quel filone politico: ci sono momenti in cui si cita la Lega, ma come una cosa che fa parte del paesaggio, su cui non è importante soffermarsi. Anche perché, fra cento anni, chi saprà più chi è stato Matteo Salvini?».

Lasciando allora da parte la politica, parliamo invece di un argomento universale che mi sembra veramente onnipresente nel documentario: la religione. «Io sono cresciuto in una famiglia religiosa, ma personalmente non sono un credente nel senso classico del termine; ho un grande interesse per la spiritualità, per il modo in cui diversi popoli la interpretano. E in maniera probabilmente non consapevole, nel montaggio, nelle scelte dei protagonisti, la religione l’ha fatta da padrona. Innanzitutto perché l’intero paese di Siculiana si fonda sulle feste religiose: non c’è un giorno in cui non ci sia una processione (questo prima della pandemia, almeno). La spiritualità che mi ha sorpreso però è quella dei migranti, soprattutto di Edward. Lui ha cambiato la storia del film. L’ho incontrato a metà percorso, è venuto da me e ha detto: io voglio portare questo crocefisso che è nero come me. Questa è una spiritualità che noi europei “civilizzati” potremmo chiamare ingenua, anche ridicola; ma è la più pura, la meno egoista. Edward non prega per lui, ma per i siculianesi. Per esempio, l’ho sentito in questi giorni: è dispiaciuto perché non potrà partecipare di nuovo alla processione, quando lui in questo momento è senza documenti, in cerca di un modo per rimanere in Europa. Anche questo è un paradosso: i valori cristiani ed europei sono strumentalizzati come qualcosa che dobbiamo proteggere da questa ondata di “barbari” che arrivano sulle nostre coste… in realtà loro sì che portano avanti il vero senso della religione, della spiritualità».

A proposito del rapporto paradossale dei siculianesi con i migranti, la pluralità di voci (chi si lascia andare a uscite razziste, chi invece si prodiga per l’integrazione) è qualcosa che hai ricercato volutamente oppure hai solo filmato quello che avevi davanti? «Ci sono diversi approcci. A me non interessa fare il giornalista politically correct, quello preoccupato del bilanciamento delle opinioni. Allora sono andato per incontri. Se pensavo che una persona avrebbe avuto in quei due anni uno sviluppo interessante, l’ho seguita nella sua vita quotidiana, aspettando un momento in cui si rivelasse in maniera naturale il suo atteggiamento, i suoi dubbi, le sue paure. Poi la stessa persona può avere due opinioni contrastanti: l’essere umano è contradittorio per definizione (specie poi l’agrigentino, per eredità culturale). Rispetto al tema della migrazione, il problema fondamentale è che è inutile farsi un’opinione se non hai ricercato o non hai avuto un’esperienza diretta. Ecco, le persone che parlavano per sentito dire a me non interessavano».

Parlando invece della struttura del documentario, si può dire che la storia si muova su due binari separati, quello dei migranti e dei siculianesi, che a un certo punto convergono? «Questo rispecchia la mia esperienza nelle riprese: Siculiana mi è sembrata camminare su due linee diverse. Il centro accoglienza è inglobato nel paese, a volte la proporzione tra immigrati e cittadini è stata di uno a quattro, ma questi due gruppi si incrociavano per strada e non comunicavano, come due rette parallele che si guardano ma non si incontrano mai. Quindi il materiale all’inizio segue naturalmente questa linea drammaturgica. I momenti di incontro sono appunto la processione finale (è lì è tutto merito di Edward, del suo coraggio e della sua santa pazzia) e poi, per me importantissima, la scena in cui i migranti sono invitati nella scuola media, una situazione nata grazie ad Alessandro, il professore di italiano dei migranti. Un modo per creare, anche con la scusa del film, un legame con quelli che saranno i protagonisti del futuro: i nostri giovani».

In un certo senso, il film stesso è diventato un’occasione di incontro. «Mi ricordo che durante le riprese la gente mi chiedeva come erano le condizioni là dentro, è vero che vivono con le pulci, che non hanno acqua, che son tutti criminali… sono diventato un po’ il modo per unire queste rette parallele. Che però alla fine divergono di nuovo. Non ci credevo neanch’io che davvero Edward avrebbe partecipato alla processione del maggio 2019, e invece tutti l’hanno osannato, è diventato l’eroe del paese. È sempre difficile decidere quando chiudere un documentario: lì io ho detto va bene così, posso finire le riprese e fare le valigie. Poi, una settimana dopo, mi chiama Alessandro e mi dice che il centro è chiuso, stanno mandando via tutti i ragazzi. Ci sono rimasto malissimo: tutto il lavoro che era stato fatto, i passi in avanti, tutto distrutto in un secondo. Chissà perché. Ci vedo la volontà di dividere piuttosto che unire».

Quindi l’epilogo del documentario non è stata una tua scelta narrativa, ma te lo hanno per così dire imposto i fatti? «Sì, avrei potuto decidere di non montare quel finale, di lasciare il lieto fine, lanciare un messaggio positivo, ma sarebbe stato un errore. Non solo andrebbe contro la mia deontologia, ma non sarebbe stato giusto neanche per i miei protagonisti, Edward, Peter, Samuel… Per loro è stato un doppio smacco perché era la prima volta, in due anni che vivevano a Siculiana, che il paese li accettava. Mi sarei aspettato che di lì a poco li avrebbero invitati a cena, gli avrebbero trovato un lavoro onesto, fatto i documenti, affittato una casa… loro ci credevano e io pure. Invece ora sono di nuovo invisibili, di nuovo dispersi ».

Per finire, che tipo di accoglienza ti sembra stia ricevendo questo film? «Paradossalmente, probabilmente lo vedono più persone con la pandemia che se fosse passato nei cinema. La cosa che mi ha sorpreso di più è stata la reazione a Siculiana. Un po’ è piaciuto perché in questo anno di pandemia ha sostituito la processione annullata, raccontando l’ultima. Ma soprattutto, ho visto che si è creato un dialogo che prima non c’era: la gente ha cominciato a parlare non più per sentito dire, ma a partire da un documento che descrive la situazione in maniera più o meno neutrale (certo, col mio punto di vista). Adesso spero che il film riesca ad arrivare anche nel cuore dell’Europa, dove occorrerebbe parlare di questi temi. Intanto sta girando in un sacco di festival, e l’Hot Docs è veramente il massimo che mi sarei potuto aspettare. Una cosa che mi incuriosisce a Toronto sarà la reazione della grande comunità siculianese che c’è qui. Il film esce la settimana in cui ci sarebbe la processione, potrebbe essere anche un modo per ricordarsi del loro paese. E poi, come vedranno questa storia, da emigrati loro stessi? Chissà. Sicuramente mi interessa scoprirlo».

Per altre informazioni e per acquistare i biglietti per il film, in programmazione giovedì 29 aprile alle 10:00, rimandiamo al sito www. hotdocs.ca

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