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Leader federali in crisi d’identità:
la debolezza della classe dirigente

TORONTO – Con il voto di solito si volta pagina. Si chiude, di fatto, l’ultimo capitolo di una stagione politica e inizia una nuova fase. Le elezioni federali del 20 settembre rappresentano un’eccezione, perché non sono state in grado di risolvere né le contraddizioni di un governo debole, sostenuto da una minoranza fragile alla Camera, né tantomeno l’inefficacia e l’instabilità delle opposizioni, sulle quali il primo ministro in pectore Justin Trudeau ha costruito le proprie fortune politiche.

In questa stagione politica, in Canada, dobbiamo fare i conti con la debolezza endemica della nostra classe dirigente: le elezioni non hanno fatto altro che sbatterci in faccia per l’ennesima volta l’inconsistenza delle leadership dei vari partiti. E ora, prima dell’avvio della nuova legislatura, i leader devono fare i conti con una vera e propria crisi d’identità.

Trudeau, dopo l’azzardo delle elezioni anticipate che nessuno voleva, nel bel mezzo della pandemia, dopo aver rischiato di perdere ed essere riuscito ad ottenere una vittoria dimezzata, è stato protagonista del clamoroso scivolone di Tofino. Il leader liberale ha disertato le celebrazioni della prima giornata nazionale per la Verità e la Riconciliazione con le popolazione indigene, preferendo andare in vacanza con la propria famiglia.

Una gaffe incredibile e inspiegabile, destinata a riaprire ferite con le comunità aborigene e con chi, per anni, ha chiesto a tutti i canadesi di avere la forza di fare i conti con la propria storia, anche con le pagine più buie.

Erin O’Toole, invece, cerca di rimanere in sella a un partito che, dopo la sconfitta elettorale, ha un unico obiettivo: quello di disarcionarlo. Al leader conservatore viene imputato di aver completamente sbagliato la strategia durante la campagna elettorale, di aver spostato troppo al centro il partito nel tentativo, fallito, di conquistare consensi nell’elettorato moderato e nella Gta.

Jagmeet Singh deve fare i conti con la seconda batosta elettorale in appena due anni. Dal 2019 il leader neodemocratico non è riuscito ad allargare la base del partito, non ha fatto breccia nell’elettorato progressista e non ha mai rappresentato una seria minaccia alla corsa a due tra liberali e conservatori. E anche tra gli ndippini sta prendendo forza l’idea che forse sarebbe il caso di cambiare il timoniere della nave, prima che questa affondi.

Annamie Paul ha almeno avuto il coraggio di dimettersi immediatamente dopo le elezioni.

Ma siccome nella politica “è sempre colpa degli altri”, la ormai ex leader verde ha imputato la propria sconfitta al clima di “intolleranza e razzismo” presente all’interno del Green Party. Ammesso che vi fosse qualcuno che remasse contro la Paul dentro il partito, in ogni caso l’elettorato ha voltato le spalle al Green Party, che è passato dai 1,2 milioni di voti del 2019 ai 397mila raccolti alle ultime elezioni.

Ci troviamo quindi di fronte a un clima di grande incertezza in vista del riavvio dei lavori parlamentari, con la pandemia ancora in corso, i timori legati alla variante Delta e a futuri eventuali nuovi ceppi del Covid, con un’economia che non decolla e con un deficit alle stelle senza alcun piano di rientro.

E con una classe dirigente in piena crisi d’identità.

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