TORONTO – Se il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha/aveva capacità oratorie eccezionali, le ha tenute ben nascoste nel dibattito del 27 giugno con Donald Trump. Sfortunatamente per lui, e per quegli americani non sopraffatti dalla “MAGA-mania”, non sono l’unico colpito da questa impressione.
Un sondaggio post-dibattito afferma che il 67% degli spettatori ritiene che Trump abbia trionfato, contro il 33% che vede Biden come il vincitore. Non so quale programma stesse guardando quest’ultimo gruppo. Anche i giornalisti, lo staff e gli analisti della CNN, decisamente simpatizzanti dei Democrats e pro-Biden, sono rimasti inorriditi dalla pietosa prestazione del presidente. I sondaggi precedenti al dibattito davano a Biden il 55% contro il 44% per vincere il dibattito.
A meno di un minuto dall’inizio della sua introduzione, il discorso di Biden ha cominciato a disintegrarsi, diventando sconnesso e incoerente. Quello che avrebbe potuto essere un dibattito su questioni su cui Biden avrebbe dovuto avere un vantaggio significativo, si è trasformato in un flusso di attacchi reciproci, da cortile di scuola, ad hominem.
Sabato, il New York Times, un altro sostenitore democratico, ha pubblicato un editoriale “implorandolo” di dimettersi. Il Comitato Nazionale Democratico ha incontrato il Comitato per la Campagna Elettorale pro- Biden. Potrebbe darsi che l’incontro fosse stato organizzato mesi prima, ma avrebbe i segni rivelatori della “limitazione del danno”.
Età, acutezza mentale e condizioni mediche sono ora le prove che Joe Biden deve superare per battere Trump. Sua moglie lo incoraggia ancora a continuare. Perché no, ha già superato i 1.976 voti richiesti a qualsiasi candidato alle primarie per assicurarsi la nomina. È sua, che venga “l’inferno o l’alto mare”. A meno che non si dimetta, qualsiasi potenziale sostituto democratico si troverà a navigare in una fossa di serpenti velenosi verso la Presidenza.
In Canada, le condizioni politiche non auspicano tanto meglio per il governo uscente. Dopo le elezioni suppletive a Toronto-St. Paul’s (T-SP), il primo ministro canadese si trova ad affrontare richieste di dimissioni simili – da parte di attuali parlamentari ed ex ministri. Se il Toronto Star è corretto, alcuni attuali ministri del Gabinetto stanno indiscriminatamente tastando le acque con i loro team della Campagna per la Leadership. I liberali provinciali stanno prendendo le distanze dalla personalità di Trudeau e dalla piattaforma del suo partito.
T-SP era la versione canadese del dibattito. Nessuno nell’entourage del primo ministro sembrava prevedere una perdita. Tuttavia, l’inerzia percepita dal governo di fronte alle accuse quotidiane e/o alle prove di aumento di atti di anti-semitismo avrebbe avuto conseguenze negative in un collegio elettorale che ospita 15.000 residenti (almeno 10.600 dei quali elettori) che si identificano come ebrei.
Perfino Jagmeet Singh, il cui partito sostiene Trudeau, mormora che i canadesi ne hanno abbastanza del suo partner nel governo di minoranza. Il suo stesso partito si sta sciogliendo sotto un sole nascente conservatore: i loro totali complessivi nei sondaggi suggeriscono che qualunque sostegno abbiano/hanno avuto tra l’elettorato non eguaglia quello di Poilievre. Inoltre, fino a quando la Camera dei Comuni non riprenderà le sue sedute (forse) a settembre, Singh non potrà orchestrare una sconfitta di Trudeau alla Camera, forzando così le elezioni.
Naturalmente, se Trudeau dovesse dimettersi da Leader per accogliere una Convenzione sulla Leadership, qualsiasi scenario che non includa elezioni anticipate impreviste rientra nella categoria di “pensieri illusori”.