TORONTO – Dopo una settimana disperata, che ha incluso la morte della leggenda di Italia ’90 Toto Schillaci e il licenziamento senza cerimonie di Daniele De Rossi dell’AS Roma, un ricordo cinematografico attraverso la nostalgica allegria e il dramma di formazione di Sorrentino “La mano di Dio”, sembra appropriato. Nel film semi-autobiografico di Sorrentino, tuttavia, un argentino sfuggente e minuto è l’eroe, non Toto. I due si sono incrociati, ovviamente, tre anni dopo l’infame ambientazione estiva del film, la stagione in cui il Napoli ha vinto il suo primo scudetto, per gentile concessione della magia di Maradona.
“La mano di Dio” riassume in due ore la rissa emotiva dell’adolescenza, le distinte interazioni aspre all’interno di una famiglia italiana e la natura spesso caotica della vita nella penisola. È il tipo di film che parla a tutti, non attraverso banalità a buon mercato o verità universali, ma dentro, nel vero stile napoletano. La storia parla di perseveranza, dichiarata in una scena iniziale quando il padre del protagonista, Saverio, dà consigli sulla vita amorosa del figlio Fabietto: “Per la prima volta, prendi tutto quello che ti capita. Un cane completo va bene. L’importante è tirarlo fuori la prima volta”. Nel gergo calcistico… buttati.
Fabietto, un sedicenne impressionabile che purtroppo non ha amici della sua età, trascorre la maggior parte del tempo in compagnia dei suoi parenti, un gruppo eterogeneo che va da una nonna mordace a uno zio avvocato altezzoso a una zia istituzionalizzata. Attraverso Fabietto, che è la rappresentazione romanzata del regista Paolo Sorrentino, lo spettatore viene condotto attraverso il mondo di condanna della mente di un giovane scrittore, mentre individua le idiosincrasie e le debolezze di ogni parente, accentuando per il suo stesso futuro i tratti più favorevoli da quelli meno.
Da ognuno dei suoi parenti, impara qualcosa. Lussuria, da una zia apparentemente lasciva. Filosofia, da uno zio che aggiunge significato dove non ce n’è. E perseveranza da un padre che ha una risposta per tutto. Tutto questo servito con la giusta dose di cinismo del Sud Italia. E con l’espressione misantropica di ogni personaggio, emerge una punta di orgoglio, come quello di un soldato sopravvissuto alla guerra. “L’umanità è terribile, non te l’hanno detto?” dice una vicina vedova dal volto impassibile parlando delle insidie del suo defunto marito. Sempre a portata d’orecchio di tali fulminazioni, Fabietto riflette sul dramma della sua famiglia per quella che presto diventerà la passione della sua vita: il cinema.
Lo sfondo del film, che è costituito dalle due estati più memorabili della recente storia napoletana, la Coppa del Mondo del 1986 e la stagione vincitrice dello Scudetto del Napoli del 1987, riecheggia perfettamente il desiderio adolescenziale di Fabietto di sognare cose più grandi. Diego Maradona, per i tifosi del Napoli, era un miracolo di San Gennaro. “Non avrebbe mai lasciato Barcellona per questo posto di merda”, predisse il padre di Fabietto che in pratica parlava a nome dell’intera città. Era impensabile. Inimmaginabile. Ma è successo. E se Maradona è riuscito a passare da uno dei club più rinomati dello sport a una squadra al decimo posto che non ha mai vinto un titolo nazionale, allora la speranza è eterna. “La mano di Dio” non è solo una scorribanda nostalgica o una storia personale, è un promemoria che una volta eravamo tutti sognatori. Ancora di più, avevamo coraggio. E come consiglia il mentore cinematografico di Fabietto nel film, “chi non ha coraggio non va a letto con belle donne”.
Guarda “La mano di Dio” su Netflix
Foto per gentile concessione di The Apartment Pictures/Netflix
Massimo Volpe, autore di questa recensione, è un filmmaker e scrittore freelance di Toronto: scrive recensioni di film/contenuti italiani su Netflix