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Justin Trudeau traballa: bivio per il primo ministro

TORONTO – Restare, contro tutto e contro tutti, o gettare la spugna dopo oltre nove anni? Justin Trudeau, a ventiquattrore di distanza dalla giornata che ha sconvolto la politica canadese, si trova davanti a un bivio. Tappata in fretta e furia la falla provocata dalle dimissioni dell’ormai ex vice primo ministro e ministro delle Finanze Chrystia Freeland con la nomina di Dominic LeBlanc, per il leader liberale è giunto il momento di prendere delle decisioni che, in un senso o nell’altro, avranno pesanti conseguenze per il nostro Paese.

Certo, la pausa invernale nei lavori parlamentari, che scatterà ufficialmente domani fino al prossimo 27 gennaio, arriva come una manna dal cielo per il primo ministro, che almeno fino a quella data non correrà il rischio della sfiducia parlamentare. Ma allo stesso tempo la crisi non è stata evitata, è stata solo messa in stand-by. È ormai chiaro che il leader grit non solo non goda più della fiducia dell’elettorato canadese, ma che debba fare i conti con il malcontento strisciante all’interno del caucus liberale: diversi deputati sono usciti allo scoperto e hanno chiesto ufficialmente al loro leader di gettare la spugna e permettere al partito di dotarsi di una nuova leadership in vista delle future elezioni federali. Che, detto, per inciso, arriveranno in ogni caso: sia che il primo ministro decida di forzare la mano e andare al voto anticipato, sia che Trudeau invece scelga di restare al timone di una barca che sta affondando fino alla scadenza naturale di questa legislatura, con l’appuntamento alle urne già fissato per l’ottobre del 2025. Secondo i deputati ribelli – ultimo in ordine di tempo, l’mp di Etobicoke Centre Yvan Baker – il primo ministro dovrebbe farsi da parte per dare al partito la possibilità di recuperare consenso nel Paese e andare al voto con una minima chance di vittoria, cosa che non potrebbe accadere se Trudeau decidesse di non mollare la presa.

Ora, il primo ministro deve per forza di cose decidere come procedere, in un percorso ad ostacoli dagli esiti difficili da prevedere. Trudeau, nonostante tutto, potrebbe scegliere di andare avanti per la propria strada. Il primo passo, ovviamente, sarebbe quella di un profondo rimpasto di governo, visto che l’esecutivo sta perdendo i pezzi e numerosi ministro si ritrovano con due o più incarichi: solamente lunedì il primo ministro ha perso la responsabile alle Finanze Freeland e il ministro incaricato alle Politiche Abitative Sean Fraser, che si vanno ad aggiungere a quattro ministri che nell’ultimo mese hanno annunciato la loro intenzione a non candidarsi alle prossime elezioni. Restano, ovviamente, un’infinità di incognite, dal possibile ingresso di Mark Carney nell’esecutivo – e quindi la nomina di LeBlanc sarebbe solo temporanea – alla scelta dei ministri papabili, visto che la truppa parlamentare rimasta fedele al primo ministro è davvero esigua. Questo però aprirebbe le porte a una possibile futura sfiducia da parte della House of Commons: il leader del Partito Conservatore Pierre Poilievre è pronto all’imboscata parlamentare, il leader del Bloc Yves-François Blanchet lunedì ha dichiarata “finita” l’esperienza di governo di Trudeau, mentre il leader dell’Ndp Jagmeet Singh ha chiesto ufficialmente al primo ministro di dimettersi.

Una seconda via d’uscita, invece, è quella di una rinuncia secondo i tempi e i modi decisi dallo stesso Trudeau. E qui ritorna in gioco l’ipotesi, circolata con insistenza negli ultimi mesi e sempre smentita, del possibile ricorso alla “prorogation”, quello strumento istituzionale in mano al primo ministro che gli permette, sostanzialmente, di resettare i lavori della legislatura, con una pausa considerevole, prima di tornare con il Discorso del Trono davanti al parlamento. In questo caso la pausa sarebbe abbastanza lunga, per permettere al Partito Liberale di organizzare la corsa alla leadership e dotarsi di una nuova guida che diverrebbe in automatico primo ministro fino alle prossime elezioni.
Ma su tutto questo all’orizzonte si intravede la minaccia rappresentata da quanto avviene a Sud del confine. Il prossimo 20 gennaio Donald Trump tornerà al potere e il tycoon newyorchese ha annunciato la creazione di dazi doganali del 25 per cento per tutti i prodotti canadesi.

Avremo, in un caso o nell’altro, un governo azzoppato e indebolito dal caos interno a dover negoziare con il futuro inquilino della Casa Bianca, in una posizione di chiara debolezza per il Canada quando invece in questo momento il Paese avrebbe bisogno di una posizione unitaria e decisa.

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