Cultura

Italy Under Construction:
l’architettura italiana oggi

TORONTO – Un’intervista con il curatore Roberto Damiani, architetto e docente alla John H. Daniels Faculty of Architecture, Landscape, and Design della University of Toronto, in occasione della pubblicazione del catalogo digitale che documenta i primi cinque anni della serie di mostre di architettura “Italy Under Construction” sponsorizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Toronto. Il catalogo della serie può essere visualizzato al link https://issuu.com/rrodamiami/docs/210923_iuc

Gentile Professor Damiani, ti ringrazio per averci concesso questa intervista. Iniziamo con il tuo percorso formativo. Vorrei che ripercorressi i tuoi passi, e spiegassi ai nostri lettori come sei arrivato in Canada ad insegnare architettura a Toronto.
«Molte delle cose migliori nella mia vita mi sono capitate per caso. E questo è vero soprattutto per il mio arrivo a Toronto. Ho studiato architettura all’Università d’Annunzio di Pescara. Finito il dottorato ero abbastanza indeciso tra la carriera accademica e la professione. Entrambe mi sembravano con poche prospettive in Italia. Il mio relatore di dottorato, Francesco Garofalo, mi parlò della possibilità di insegnare a Toronto: accettai con tutta l’incoscienza del caso. Conoscevo davvero poco la città. Ma soprattutto conoscevo pochissimo il sistema universitario nordamericano. Nonostante avessi trascorso un periodo di studio alla Cornell University, non avevo alcuna esperienza di come si insegnasse architettura qui. Devo ringraziare molto i docenti alla Daniels che mi hanno dato fiducia e tempo di adattarmi. Questi otto anni (ho cominciato nel 2013) sono stati molto intensi e istruttivi per comprendere la singolarità dell’architettura italiana e in generale per riflettere sulla formazione dell’architetto a livello universitario rispetto a reti di insegnamento e ricerca che sono sempre più globali. Nei miei primi mesi alla Daniels, un docente mi chiese: ma che cosa è successo all’architettura italiana? Non abbiamo sentito nulla dopo Aldo Rossi. La serie è nata anche per rispondere a questo tipo di domande».

Ci spieghi come è nato il progetto Italy Under Construction? Quali sono state le tappe principali?
«Anche in questo caso, tutto è nato da un incontro casuale nel febbraio del 2013 con due persone appassionate di architettura contemporanea: Alessandro Ruggera, l’ex direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Toronto, e Stefano Pujatti, uno dei più talentuosi architetti italiani, anche loro arrivati a Toronto da pochissimo. Per essere sincero l’idea iniziale di una serie di mostre di architettura è venuta a loro. Io ho curato il resto, legandolo al ciclo di conferenze, e mettendoci molta passione per bilanciare l’assenza di una preparazione tecnica come curatore. Se parliamo di tempi, ho impiegato nove mesi per preparare la prima mostra e organizzare la piattaforma di comunicazione della serie. Come curatore, la prima domanda che mi sono posto è stata come fare una mostra di architettura contemporanea per un pubblico misto per conto di un’istituzione non specializzata. Abbiamo discusso molto e fin dall’inizio, con il direttore Ruggera, siamo stati d’accordo su alcuni punti chiave. Decidemmo di assumere un atteggiamento non celebrativo ma sicuramente ottimista. In Italia si parla spesso di crisi dell’architettura italiana. Abbiamo voluto rivolgere lo sguardo al contemporaneo perché troppo spesso la conoscenza dell’architettura italiana si limita ai capolavori del passato, con una particolare attenzione ai progetti costruiti. Quest’ultimo aspetto è legato a una questione di intelligibilità e di risposta a una vecchia polemica. Una mostra che ha come oggetto specifici edifici credo possa generare più empatia di una che, per esempio, ha come oggetto altre forme espressive dell’architettura come i disegni. Il dibattito nordamericano ha guardato agli architetti italiani come autori compiaciuti di “architettura disegnata” che hanno una certa difficoltà a costruire. Ovviamente, poi c’è il tema molto difficile di come raccontare una identità nazionale all’estero.
Ho cercato di affrontarlo indirettamente, lasciando parlare le mostre e gli architetti. E soprattutto ho cercato di evitare semplificazioni a cui il pubblico si è abituato come il “made in Italy”».

La serie include mostre di diverso tipo e un ciclo di lezioni. Puoi descriverci il formato di Italy Under Construction? «Fin dai primi incontri, il direttore Ruggera ha richiesto che si creassero momenti di incontro tra il pubblico di Toronto e gli architetti italiani. Così pensammo a delle lezioni pubbliche. La mia affiliazione con la John H. Daniels ha reso le cose più semplici. Inoltre, molti degli architetti invitati sono docenti universitari, e per loro non è stato un problema parlare in maniera disinvolta di fronte a un’aula che quasi sempre è stata piena. Per quanto riguarda l’articolazione delle mostre, sapevo che in Italia ci sono architetti con un corpus di opere più completo a cui volevo dare spazio. Allo stesso tempo, ci sono architetti meno conosciuti, il cui lavoro in città più piccole è sconosciuto all’estero. L’alternanza di mostre monografiche e collettive raccoglie queste riflessioni. Quando ho proposto le mostre monografiche, il direttore Ruggera è stato molto cauto nell’evitare qualsiasi intento commerciale, così abbiamo pensato di organizzarle come un dialogo tra due architetti. Per quelle collettive, ho voluto evitare i grandi assembramenti che sono tipici delle mostre di architettura italiane dove il pubblico si perde a causa dei troppo architetti e progetti in mostra. Molte cose sono state definite in corsa. Per esempio, dopo la prima mostra ho capito che dieci progetti era il numero giusto per la galleria espositiva dell’Istituto».

Come sono stati scelti i temi e quali sono stati i criteri di selezione di quelli che ritieni gli studi di architetti più significativi d’Italia?
«Abbiamo proposto temi che fossero specifici per comprendere l’architettura italiana contemporanea, ma allo stesso tempo evocativi di questioni globali a cui il pubblico di Toronto potesse relazionarsi. Gli studi che abbiamo scelto sono quelli che producono un’architettura che risponde alle sfide contemporanee con un approccio che si può definire come “ricerca.” In poche parole, abbiamo selezionato studi che progettano edifici che non sono solo eccellenti, belli e ben costruiti, ma anche esempi di come l’architettura nella sua dimensione culturale, politica, e sociale, possa aiutare a capire il ruolo che specifici edifici hanno nel costruire spazio pubblico, inteso nella sua accezione più ampia. Per quanto riguarda i singoli progetti, abbiamo scelto edifici costruiti negli ultimi cinque anni e che rappresentassero la complessa geografia culturale italiana. Parlo al plurale perché il direttore Ruggera ha sempre partecipato attivamente alla fase di selezione».

Da poco è uscito il catalogo digitale che raccoglie questa esperienza. Com’è stato tradurre il tuo lavoro di curatore in un formato editoriale? In che modo vanno riformulate certe questioni?
«Ho studiato con architetti che erano grandi appassionati di libri e progetti editoriali, come i cataloghi delle mostre, che per loro rappresentano un modo per corroborare la cultura architettonica e avvicinarla a un pubblico vasto. E credo che questo sia vero per molti architetti italiani. Per questo motivo, fin dall’inizio, ho curato le mostre anche pensando al catalogo. È stato più difficile selezionare il materiale tra le centinaia di foto e disegni che avevamo raccolto nel corso dei cinque anni. Devo ringraziare i grafici veneziani Andrea e Giacomo dell’agenzia grafica bruno che mi hanno aiutato nella scelta finale. Sono stati molto pazienti e bravissimi a capire da subito il progetto editoriale. Con loro abbiamo pensato a un formato aperto per il catalogo che ci consentirà di includere le prossime mostre».

Quante mostre avete organizzato finora, e quali sono stati i temi principali? Altre in preparazione?
«Abbiamo organizzato quattro mostre fino a ora. Nelle mostre collettive abbiamo parlato di architettura pubblica e del rapporto tra progetti di paesaggio e sostenibilità urbana. Nelle monografiche abbiamo esposto il lavoro di Elastico SPA (Torino), che ora ha anche uno studio a Toronto, Beniamino Servino (Caserta), Cino Zucchi (Milano) e Renato Rizzi (Venezia). Sono molto soddisfatto perché la mostra sull’architettura pubblica è stata esposta anche a Ottawa. La nuova direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, Veronica Mason, è interessata a proseguire con la serie. Nell’ultima mostra “Emerging Ecologies” abbiamo testato un nuovo formato che raccoglie studi italiani e canadesi. Mi piacerebbe continuare a usarlo per parlare di diritto alla casa e riuso degli edifici. Due temi urgenti che la città di Toronto dovrà affrontare nei prossimi anni».

Alberto Zambenedetti

Nella foto: Roberto Damiani (credits Janick Laurent)

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