Canada

Governo, a tre donne
gli incarichi principali:
dubbi sulle quote rosa

TORONTO – Diciannove ministri e diciannove ministre, con i tre più importanti ministeri affidati a tre donne. Il nuovo governo federale guidato da Justin Trudeau – dopo quelli scaturiti dalle vittorie elettorali del 2015 e del 2019 – assume una connotazione ben precisa, dove sussiste un perfetto equilibrio paritario di gender che diventa l’elemento predominante rispetto ad altri fattori che storicamente hanno caratterizzato il processo di formazione dell’esecutivo in Canada, come la provenienza geografica o l’origine etnica.

Chrystia Freeland è stata confermata nel doppio fondamentale ruolo di vice primo ministro – con ampi poteri e con una autonomia quasi illimitata – e ministro delle Finanze, ruolo chiave in una fase in cui il governo non solo deve continuare ad implementare misure e provvedimenti contro la crisi economica provocata dalla pandemia, ma deve anche mettere a punto la road map fiscale per arrivare gradualmente al pareggio di bilancio con la conseguente eliminazione del deficit.

Anita Anand è stata promossa al portafoglio della Difesa e questa nomina ha anche un profondo significato simbolico, visto che l’esercito canadese negli ultimi mesi è stato travolto dallo scandalo degli abusi sessuali e, più in generale, di una radicata cultura di mancato rispetto dei diritti delle donne in divisa. Prima della Anand solamente un’altra donna aveva ricoperto questo incarico, Kim Campbell, e solo per sei mesi da gennaio a giugno 1993.

Mélanie Joly, invece, è stata nominata ministra degli Esteri, e anche questa nomina ha un determinato valore simbolico: sarà una donna infatti la più importante rappresentante del Canada all’estero e nel palcoscenico geopolitico mondiale. Detto questo, bisogna aggiungere che anche alle altre donne che fanno parte del nuovo esecutivo sono stati affidati ruoli e competenze di primo piano: Mary Ng al Commercio Estero, Patty Hajdu nel delicatissimo dicastero per i Servizi agli Indigeni, Mona Fortier al Tesoro, Diane Lebouthillier alle Entrate Nazionali, Carla Qualtrough al Pubblico Impiego, l’italocanadese Filomena Tassi ai Servizi Pubblici.

Insomma, siamo di fronte a una svolta epocale, con un nutrito gruppo di deputate competenti, preparate e qualificate per esercitare ruoli che in passato erano riservati o quasi ad esponenti politici di sesso maschile.

Eppure qualche dubbio rimane e questo non per colpa delle nuove ministre, il cui pedigree politico di primo piano non ha bisogno di alcuna spiegazione ulteriore, ma per la metodologia utilizzata dallo stesso Trudeau nella composizione dell’esecutivo. In Italia la necessità di garantire la presenza delle donne in politica è stata definita quota rosa: un numero cioè minimo di deputate che devono essere presenti in parlamento. Il raggiungimento di questo obiettivo, che con la legge elettorale chiamata Rosatellum impone la presenza di almeno il 40 per cento di donne nelle liste dei candidati, è stato accompagnato da un acceso dibattito che ha visto, paradossalmente, tantissime esponenti del femminismo italiano fortemente contrario.

Luciana Castellina, comunista e femminista, ha criticato il sistema della quote rose: “Non sono mai stata una grande appassionata delle quote femminili: non è che cambia la società se una donna s’infila nei ruoli maschili». Una linea condivisa da un’altra esponente storica del femminismo italiano, Ritanna Armeni: “Se dovessi fare una battaglia politica, oggi, la farei per stabilire che non sia un segretario di partito a scegliermi, e soprattutto a scegliermi in quanto donna. Dalle donne, invece, mi aspetto che siano audaci, rompipalle, insistenti, e che non si accontentino di accessi favoriti dalle quote, perché hanno tutti gli strumenti per ottenere di più, molto di più”.

Molto più dura la posizione di una delle principali femministe degli anni Settanta, Lea Melandri: “Le quote rosa sono una battaglia di retroguardia. Di più: un clamoroso fraintendimento di quello che potrebbero, e dovrebbero fare, le donne in politica. Non è così che si combattono le discriminazioni”.

L’antropologa e scrittrice Ida Magli ha sostenuto posizioni simili: “Accettare l’idea delle quote è un passo indietro, come confessare di essere una specie da proteggere, distruggendo così anni di conquiste che le donne sono riuscite a raggiungere da sole. In molti campi hanno costretto ai margini gli uomini diventando maggioranza o facendosi apprezzare più degli uomini”.

Ma qual è la tesi di fondo messa in luce da alcune esponenti storiche del femminismo italiano? In sostanza è che garantire o attribuire una determinata carica politica a una persona solamente perché donna vuol dire sminuire la preparazione e le qualità della stessa.

Secondo noi Freeland, Anand e Joly hanno delle qualità politiche e delle competenze fuori dal comune e la posizione di rilievo che andranno a ricoprire rappresenta il giusto riconoscimento di un unico principio: quello del merito. Non siamo invece del tutto sicuri che il metodo di scelta deciso e utilizzato dal primo ministro liberale abbia seguito questo ragionamento e sia invece caduto nelle stesse contraddizioni messe in luce da numerose esponenti del femminismo italiano sulle quote rosa.

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