TORONTO – “L’America”, la metà settentrionale dell’emisfero occidentale, è un “cucciolo malato”, politicamente e culturalmente parlando ovviamente – in ogni senso della parola.
Negli Stati Uniti, dopo mesi di intense discussioni, dispute organizzative e “revisioni giudiziarie” volte a determinare da chi le scelte tra cui il pubblico potrebbe scegliere il proprio leader, è emerso il presunto candidato repubblicano, ora confermato: Donald Trump, la voce del popolo, la voce di Dio – un principio fondamentale della democrazia, che piaccia o no.
Poi, BAM, un tentativo di annullare quel processo con la violenza ha portato a confermare l’“intento” opposto: che la performance disastrosa, al dibattito, del presidente Joe Biden avrebbe condotto alla sconfitta abietta del Partito Democratico a novembre. I suoi sapienti (per favore inserite la parola sarcasmo inteso in qualsiasi momento) entrarono in azione.
Questi dotti, importanti eletti del passato e del presente, insieme a coloro che possedevano denaro, hanno iniziato una campagna dietro le quinte per riparare il danno che la performance di Biden prefigurava per loro. Dal loro punto di vista, come nel caso di Trump, il popolo si e’ sbagliato. Con le buone o con le cattive, Biden deve abbandonare il suo incarico: gli oligarchi non possono tollerare un vento democratico nel loro campo.
Una vera e propria campagna insidiosa, guidata da vacui attori di Hollywood e guru finanziari di Wall Street, è emersa per cacciare Biden. I principali partecipanti, primo fra tutti il vicepresidente Kamala Harris, stanno ora proponendo una versione politica di un torneo tipo International Soccer Tournament Knock Out Round per selezionare un sostituto. L’impazienza è all’ordine del giorno.
Secoli di sforzi umani per raggiungere un modello di governance fatto di pesi e contrappesi per frenare e contenere le tendenze di una “classe privilegiata” verranno buttati al vento. Possiamo dimenticare le politiche volte a utilizzare al meglio le risorse per il maggior numero di persone.
Una cabala simile sembra ora ribollire in Canada (il Grande Nord Bianco), dove il 40% della massa terrestre (l’Artico) è sempre sotto il ghiaccio. Qui, l’impazienza è stata tenuta a bada, in parte grazie alla presa ferrea che il Primo Ministro Justin Trudeau ha su un Partito che è generalmente considerato al suo seguito personale. A differenza di Biden, storicamente, ha dimostrato poca pazienza con i “pretendenti” – reali o presunti.
Nel caso di Trudeau, sembrerebbe che gli oligarchi, così come sono, svolgano un ruolo tenue e debole soprattutto perché non possono operare senza di lui. I membri di quel gruppo si riversano periodicamente nella stampa e nei media per essere “eliminati” e liquidati perché hanno scarso sostegno nel campo pubblico. Inoltre la loro personale “popolarità viene misurata in singole cifre entro i margini di errore dei sondaggi.
Ciononostante, i numeri dei sondaggi continuano a dipingere un quadro cupo delle possibilità di rielezione dei liberali. In Canada, nonostante i notevoli vantaggi socioeconomici, le “questioni” relative alla crescita e al benessere, in quanto riguardano i risultati di un’amministrazione competente, la tassazione e la pianificazione a lungo termine, continuano ad avere importanza.
Il colosso economico degli Stati Uniti sembra indifferente a queste considerazioni, nonostante la retorica politica. Non così in Canada. Restano attuali le variazioni del tema che sottolineano l’importanza di sfruttare le nostre prodigiose risorse umane e naturali. In questo caso, l’impazienza non è tanto associata all’ageismo dei nostri leader quanto a quello dei nostri governi.
Come negli Stati Uniti le cabale affronteranno lo stesso “giorno della resa dei conti”, nonostate presunti rimpasti di governo.
Nella foto in alto, Joe Biden e Justin Trudeau (da Twitter X – @RGBAtlantica)