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I meriti di Trump e i demeriti di Kamala, il senso di insicurezza ha deciso la sfida

TORONTO – Donald Trump torna alla Casa Bianca dalla porta principale, con una vittoria clamorosa la cui portata ha mandato all’aria le previsioni della vigilia. Per settimane abbiamo sentito sondaggisti, presunti esperti e analisti politici ripeterci ad nauseam come queste elezioni presidenziali sarebbero state estremamente equilibrate, decise probabilmente da una manciata di voti nei sette Stati chiave. Uno scenario, quello ipotizzato alla vigilia, completamente smontato, dai risultati finali. Trump ha vinto a valanga, facendo l’en plein nel voto popolare – gli ultimi dati parlano di 72 milioni di preferenze, contro i 67 milioni di Kamala Harris – e ha fatto da traino anche per le elezioni del Senato, dove i repubblicani tornano ad essere maggioranza.

Ma quali sono stati i fattori che hanno maggiormente influenzato la vittoria del tycoon di New York, secondo presidente della storia americana a tornare alla Casa Bianca con due mandati non consecutivi? Il primo, il più significativo, è stato il senso di insicurezza che ha spinto l’elettorato americano a voltare pagina di fronte all’amministrazione Biden-Harris, voltando quindi le spalle all’attuale vicepresidente: insicurezza economica prima di tutto, con l’inflazione che ha picchiato duro negli ultimi due anni, con i tassi di interesse alle stelle e con un generalizzato aumento del costo della vita. Senso di insicurezza che ha avuto un riverbero anche nelle politiche migratorie, con Trump che è stato bravo a carpire come nel 2016 il bisogno di risposte concrete contro l’immigrazione clandestina.

Allora fu il muro – la cui costruzione non è mai stata completata, per altro, durante i sui 4 anni allo Studio Ovale – a catturare il voto di milioni di americani, oggi invece è la promessa di un nuovo giro di vite alle frontiere e deportazioni di massa. Un secondo decisivo fattore che ha spalancato ancora una volta le porte della Casa Bianca all’ex presidente è stata la totale disaffezione dell’elettorato americano verso l’attuale amministrazione.

La decisione di Joe Biden di rimanere in sella come candidato democratico fino allo scorso luglio ha fatto aumentare il malcontento in numerose fasce dell’elettorato americano, e la stessa Kamala nella sua campagna elettorale non è stata in grado di presentare un programma convincente. E questo anche perché si trovava nella scomoda situazione di dover da un lato difendere con forza quanto fatto in questi quattro anni come braccio destro di Biden e dall’altro di dover chiedere a gran voce “il cambiamento” rispetto all’attuale presidente.

Il giochino non ha funzionato, così come il tentativo di demonizzazione dell’avversario. Che nella sua oggettiva impresentabilità, aveva comunque alle spalle il sostegno della stragrande maggioranza dei repubblicani e – ne abbiamo avuto conferma martedì – la maggioranza del popolo americano.

E adesso? Mettiamo le cose in chiaro. Con Trump alla Casa Bianca non finirà il mondo: ci è già stato per quattro anni e nonostante i tanti pasticci e i molti errori, gli Stati Uniti non sono sprofondati nella dittatura.

Non la pensa così il New York Times, che alza bandiera bianca e fa previsioni funeste. “L’America ingaggia un uomo forte”: è il titolo di una analisi del NYT. “Questa è stata una conquista della nazione non con la forza ma con un permesso firmato. Ora l’America è sul precipizio di uno stile autoritario di governance mai visto prima nella sua storia di 248 anni”. Non è successo nel 2016, non succederà nemmeno adesso.

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