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Ugo Tognazzi: l’attore,
il ‘brigatista’, il cuoco

TORONTO – Cento anni fa, il 23 marzo 1922, nasceva Ugo Tognazzi. La madre avrebbe voluto che si facesse prete; invece, Ugo era destinato a diventare uno dei più grandi attori del cinema italiano. Un talento precocissimo: già a quattro anni prese parte a diversi spettacoli di beneficenza. Ben presto comincia a recitare nella filodrammatica cittadina, e durante la guerra organizza spettacoli comici di varietà per intrattenere i commilitoni. Nei primi anni del dopoguerra inizia a farsi notare lavorando per varie compagnie teatrali e in numerosi film, spesso in piccole parti; ma il successo definitivo arriva grazie alla televisione, in coppia con Raimondo Vianello, nel varietà “Un, due, tre”, che spopola dal 1954 al ’59.

Questa popolarità apre a Tognazzi le porte del grande cinema; a rivelarlo come grande attore è la difficilissima parte del giovane fascista Primo Arcovazzi in “Il Federale” di Luciano Salce, nel 1961; ma la consacrazione definitiva arriva l’anno successivo, con “I Mostri” di Dino Risi. In questo film a episodi, vera pietra miliare della commedia all’Italiana, Tognazzi e Vittorio Gassman ricoprono da soli tutti i ruoli principali, dando volto – con un umorismo non sempre bonario – ai ‘mostri’ gli Italiani sono diventati negli anni del boom (o che gli uomini sono stati sempre?).

Tognazzi diventa così, con Manfredi, Mastroianni, Gassman e Sordi, uno dei cosiddetti cinque “colonnelli” del cinema italiano, che dominano le sale per quasi trent’anni; tanto che poco prima di morire, quando riteneva che “il cinema gli avesse voltato le spalle”, si consolava considerando che era “fisiologico”: dagli anni Sessanta ai Novanta c’erano stati praticamente solo loro. Gli rimase il cruccio di non aver potuto coronare questa impressionante carriera recitando per Fellini: il regista l’aveva infatti scelto per “Il Viaggio di G. Mastorna”, film progettato e mai realizzato.

Tra i ruoli più iconici di Tognazzi c’è senza dubbio quello del conte Mascetti in “Amici miei” di Monicelli, l’inventore della “supercazzola”, termine oramai diventato proverbiale per indicare uno sproloquio in realtà privo di senso ostentato con grande sicurezza per confondere gli interlocutori. In questo film, il conte e i suoi amici non fanno altro che inventare complesse burle ai danni di chiunque gli capiti a tiro. Anche nella vita vera, però, Tognazzi aveva un discreto senso dell’umorismo. Nel 1979, accettò di partecipare a uno scherzo di proporzioni veramente storiche, orchestrato dalla rivista satirica “Il Male”. Si era nel pieno degli ‘anni di piombo’, e il Paese, che ancora non si era ripreso dal trauma del delitto Moro, si era convinto dell’esistenza di un “grande vecchio” a capo delle terribili Brigate Rosse. Ebbene, il “Male” ebbe l’idea di inventarsene uno: il 3 maggio 1979 le edicole di tutta Italia furono così invase da copie fasulle di noti giornali che titolavano “Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR” (“Anche Vianello nella direzione strategica: cinquecento carabinieri gli danno la caccia. Finto lo scioglimento della coppia ai tempi di ‘Un due tre’. Da dietro le quinte dirigevano il movimento eversivo”).

Al centro della pagina campeggiava una foto di Tognazzi ammanettato da due carabinieri: non si trattava di un fotomontaggio, ma di un’autentica foto per la quale l’attore aveva accettato di buon grado di posare. A quanto pare, la burla riuscì, e prima che le acque si calmassero, in parecchi erano davvero convinti che il famoso comico fosse in realtà un pericoloso terrorista.

Artista, comico, burlone: non si può però chiudere un ritratto di Tognazzi senza fare menzione della sua altra grande passione, la gastronomia. Nel 1973, in un’altra interpretazione memorabile, Tognazzi recita (affiancato da Mastroianni, Noiret, Michel Piccoli”) in “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, la storia di un gruppo di amici che decidono di rinchiudersi in una villa di campagna e mangiare fino a morire. A Marco Ferreri è dedicato il primo di diversi libri che Tognazzi scrisse a proposito di cucina: “L’abbuffone” (1973); il buffone che si abbuffa è ovviamente lo stesso Tognazzi. “L’abbuffone” vuole essere un invito a riesumare “quella morale epicurea della gioia, della vita, che fece grande la romanità e il Rinascimento”, recuperando “una dimensione che si sta sempre più disfacendo, assediata com’è dalle schiere dei liofilizzati, dei surgelati, degli inscatolati”.

Il libro include un “Ricettario” personale, in cui piatti facilmente realizzabili si alternano a ricette che mirano, ancora una volta, a prendersi gioco dei commensali, mentre la parte conclusiva, “La Derniére Bouffe”, ricostruisce i piatti visti nel film di Ferreri, che erano effettivamente preparati sul set da uno chef professionista. Tognazzi ricorda il film come “l’esperienza più diversa, più fuori dalle righe, più fantastica che io abbia mai fatto in campo cinematografico… […] arrivando sul set, anziché vedere con gli occhi le scene che avremmo girato, le vedevamo col naso”. La parte più interessante del libro è però forse la prima, una “Autogastrobiografia” in cui Tognazzi racconta la sua vita attraverso il rapporto col cibo: “Ho la cucina nel sangue, il quale penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro”.

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