Respiriamo il buio per immaginare l’oltre

VENEZIA – Se fosse nato nel Seicento, sarebbe stato il maestro delle cerimonie più ambito d’Europa e, se i suoi natali fossero caduti tra Quattro e Cinquecento, lo avremmo di certo incontrato alla corte del Magnifico in casa Medici. Con il signore di Firenze, tuttavia, Lorenzo Cutuli non condivide solo l’onomastica ma anche un profondissimo universo di sapere di natura squisitamente rinascimentale: scenografo, pittore, costumista, scultore, docente, lettore vorace ed onnivoro, osservatore silenzioso dei panorami emozionali del terzo millennio, Lorenzo Cutuli è un uomo ed un professionista in cui sapere e sapore rimano in maniera fruttuosa, e non solo etimologicamente. Lo ho raggiunto al telefono per ripercorrere la sua carriera e farmi raccontare dei suoi progetti futuri, in questi mesi in cui le arti (apparentemente) tacciono ma il cuore di chi le rende vive no.

Lorenzo Cutuli, ferrarese di nascita o d’adozione?
«La mia famiglia è di origini calabresi ma è da due generazioni che siamo ferraresi. Vivo nella casa dove sono nato, un po’ come Emanuele Luzzati, che è stato un mio grande maestro. Non ho mai fatto veri e propri traslochi: è la mia ’coperta di Linus’, una sicurezza, in una zona di Ferrara strategica per gli spostamenti».

Parliamo di Lorenzo bambino: quali sono i ricordi?
«Ho sempre avuto una grande passione per quello che è teatrale, le forme in movimento, i colori. Già da piccolo amavo moltissimo disegnare. Ho fatto l’istituto d’arte a Ferrara su consiglio di una mia insegnante delle medie, grande maestra dell’incisione, Carolina Marisa Occari, allieva di Morandi a Bologna. Mi ha sempre spronato a fare la scuola d’arte: in cuor suo sapeva già che teatro e scenografia sarebbero stati il mio futuro».

Diplomato a pieni voti in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, solidi studi in Storia dell’Arte a Ferrara, senza mai abbandonare la pittura, giusto?
«Esatto: sin dall’adolescenza mi sono dedicato alla pittura. Ero considerato un enfant prodige, esponevo e facevo mostre, personali e collettive. Partecipai a molti concorsi di pittura, con grandi soddisfazioni».

Come scopri il teatro?
«Grazie all’abbonamento per studenti che l’istituto d’arte ci dava la possibilità di avere: avevo 14 anni. Durante le stagioni estive frequentavo i festival di danza. La mia passione per il teatro nasce proprio grazie alla danza. Sono fortunato perché ho visto tutti i grandi e con alcuni di loro ho anche collaborato: Maurice Béjart, Luciana Savignano, Michail Baryshnikov, Rudolf Nureyev, Roland Petit, Carla Fracci, la Ferri. Il senso del movimento e la concezione dello spazio scenico mi viene da questa immutata passione. Avrei voluto fare il danzatore ma il destino aveva in serbo altro per me…».

Dopo il diploma arrivano le prime occasioni lavorative, quali sono state alcune tra le più significative?
«La prima occasione di assistentato è nata con Emanuele Luzzati col quale ho avuto l’onore di collaborare per un’opera. Ci eravamo conosciuti qualche anno prima per una mostra dedicata al bicentenario rossiniano, inaugurata da Sgarbi. Tra costumi, pezzi di scena, accessori, bozzetti e gioielli, nella sezione del Rossini buffo c’erano opere di Luzzati per l’appunto, insieme ad altre di Santuzza Calì e Jean-Pierre Ponnelle».

Non solo teatro ma anche un entusiasta scenografo per l’allestimento e l’organizzazione di mostre quindi?
«Sì, la creazione di mostre per il grande pubblico è un’altra mia passione: nel ’96 ne organizzai una sul cinema e i costumi di Luchino Visconti, insieme a Vera Marzot e Caterina D’Amico, resa possibile grazie all’inestimabile collaborazione della sartoria Tirelli. E spero di poter fare con loro anche una prossima esposizione dedicata ai costumi degli Oscar».

Vogliamo parlare dei tuoi maestri e delle tue collaborazioni internazionali?
«Ce ne sono molti e a tutti sono profondamente grato. Una relazione straordinaria è stata quella con il maestro Claudio Abbado con cui ho lavorato in svariate occasioni, tra cui un Simon Boccanegra dai toni mitici in cui feci scene e costumi, un notevole banco di prova per me. Di eguale importanza non posso non ricordare gli insegnamenti e le esperienze con Roland Petit, Bob Wilson, Lindsay Kemp, Hugo De Ana, Luca Ronconi, Mario Martone. Negli ultimi anni collaboro con immensa soddisfazione come scenografo e costumista con Maurizio Scaparro per cui ho lavorato agli ultimi suoi sette spettacoli».

Cosa ci puoi dire di Lindsay Kemp?
«Con lui fu una folgorazione già nella mia adolescenza. Mi ha insegnato moltissimo e devo ricordare la sua “Fairy Queen” di Purcell del 2002, uno spettacolo straordinario dal successo fragoroso. Io vi lavorai come scenografo e videodesigner: era pura magia sul palco ed il pubblico letteralmente incantato, se ci incrociava per strada dopo averci visti sul palco, ci fermava e ci riempiva di complimenti. Fu un progetto colossale».

Arrivando ai giorni nostri, insieme al tuo lavoro artistico e alla docenza presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, quali sono i progetti sul tavolo?
«Dopo anni di scene e costumi, penso sia il momento di cominciare a chiudere il cerchio e vorrei dedicarmi anche alla regia».

Un’idea in particolare?
«Sì, vorrei dare nuova voce alle sirene, una mia fascinazione da molti anni. Sto lavorando ad uno spettacolo che metta finalmente in scena, anche con musica e canto oltre alla presenza di un’attrice, “Sirenetta” di Marguerite Yourcenar. Degli accordi sono già stati presi con il Teatro di Ferrara e spero si possa vedere presto sul palcoscenico ».

Lo speriamo davvero anche noi. Lorenzo, perché abbiamo bisogno del teatro?
«Per me è un’esigenza comunicativa. Non è solo raccontare qualcosa, è affabulare: c’è la magia di ciò che accade davanti ai nostri occhi, che evoca, incanta, fa pensare. C’è un bisogno di interagire. La comunicazione teatrale è diretta, senza filtri: l’energia che si crea tra il pubblico, con gli attori, il cantante è irripetibile. Non c’è serialità. Ogni sera il teatro è sempre nuovo, fatto di variazioni, come ci insegna Benjamin. Il teatro è un’esigenza imprescindibile».

Una scenografia non è ma è…
«È uno spazio drammaturgico, non è arredamento, non è un fondale. È un segno che tu dai quando si apre il sipario, la prima cosa che lo spettatore vede. Per un artista il linguaggio tende sicuramente ad asciugarsi nel tempo per giungere ad una sintesi dal punto di vista spaziale. La scenografia è un atto di pensiero visivo».

Qual è la chiave di volta del teatro?
«Il teatro ha bisogno di vuoto e di libertà. Bisogna cominciare a respirare il buio. Bisogna intuire che c’è un altro mondo, non bisogna dichiarare tutto. Dobbiamo capire che sul palco, nel buio della sala, quando calano le luci e si alza il sipario, c’è un oltre».

Nelle immagini sotto, bozzetti e creazioni di Lorenzo Cutuli © 2021 

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