Il ricordo

 Cento anni fa nasceva Sciascia, un ‘maestro’ da riscoprire

TORONTO – Lo scorso 8 gennaio Leonardo Sciascia avrebbe spento la centesima candelina. Sempre nel gennaio 1921 veniva fondato il Partito Comunista Italiano; nel novembre 1989 Sciascia moriva, e a Berlino cadeva il Muro. Due coincidenze temporali non particolarmente significative per la vita dello scrittore (nonostante una militanza nel PCI durata un paio d’anni); ci danno però la misura di un’epoca che sentiamo ormai lontanissima.

Dobbiamo considerare allora anche Leonardo Sciascia come un reperto novecentesco da etichettare e archiviare? Probabilmente no, ma di sicuro c’è una certa tendenza a liquidarlo con definizioni piuttosto sbrigative.

Per molti il nome di Sciascia è legato in maniera indissolubile ed esclusiva al suo romanzo più famoso: ecco che quindi uno scrittore estremamente prolifico ed eclettico si riduce a “quello del Giorno della Civetta”.

Certo, “Il giorno della civetta”, storia di un integerrimo carabiniere parmense chiamato in Sicilia a indagare su un intricato delitto di mafia, è indiscutibilmente un capolavoro letterario, giustamente celebre (complice lo splendido adattamento cinematografico di Damiano Damiani); ma circoscrivere l’esperienza letteraria di Sciascia a questo singolo romanzo porta a generalizzazioni molto riduttive.

Certamente da ricondurre al successo di questo romanzo, per esempio, è la nomea di Leonardo Sciascia come “mafiologo”. In “Il giorno della civetta” troviamo in effetti alcune intuizioni lucidissime: il famoso passo sulla “linea della palma”, ovvero la sfera di influenza mafiosa, che va allungandosi sempre più a Nord; o il suggerimento di basare le indagini sugli accertamenti bancari (come farà effettivamente Falcone negli anni ’80). Ma la mafia era solo uno degli interessi (e forse neanche tra i più significativi) di Sciascia, che infatti da queste definizioni prenderà sempre le distanze.

Altra semplificazione è parlare di Leonardo Sciascia come “giallista”: “Il giorno della civetta” è tecnicamente un poliziesco, e il giallo sarà effettivamente uno dei generi più frequentati dallo scrittore; ma sono gialli atipici, in cui l’investigatore scopre in realtà molto poco, e i colpevoli rimangono spesso impuniti.

E la produzione sterminata di Sciascia annovera anche prove notevoli nel romanzo storico, nel saggio letterario, e soprattutto nei libri d’inchiesta, tra i quali rimangono indimenticabili “La scomparsa di Majorana” e “L’affaire Moro”, veri e propri virtuosismi in cui la letteratura e la narrativa si basano sulla ricostruzione documentaristica degli eventi. Forse è soprattutto qui che si rivela la vocazione più profonda della poetica di Sciascia: la fascinazione verso i fatti, lo sforzo di interpretarli razionalmente con la consapevolezza però che questi tentativi saranno il più delle volte frustrati (questa ambivalenza si basa sul contrasto tra le due correnti alle quali lo scrittore riconosce di ispirarsi: da una parte la razionalità degli illuministi francesi, dall’altra il maestro del dubbio, Luigi Pirandello).

Ed è per questo che anche i giudizi più generosi su Sciascia, quelli che lo identificano come scrittore “civile” o “impegnato” sono ancora una volta riduttivi: anche se i suoi scritti possono avere un ruolo politico o sociale, il problema che pongono è più generale, direi quasi esistenziale: quali sono i limiti del pensiero.

Per questo Sciascia va riscoperto, andando al di là dei cliché: non perché sia un autore “attuale” (certamente lo è; e un Roberto Saviano, ad esempio, gli deve moltissimo), ma perché è un autore classico, cioè senza tempo.

L’unica etichetta che ci sentiamo di assegnare a Sciascia, in conclusione, è quella di maestro. In questa definizione lo scrittore si riconosceva certamente, ma solo perché veritiera in senso molto letterale: Leonardo Sciascia era maestro per davvero, maestro di scuola elementare. Con molta ironia, diceva di se stesso: “Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari”.

E per dare l’idea di quanto fosse allergico ai riconoscimenti intellettualistici (“Se mi chiamano ‘intellettuale’ non mi volto nemmeno”, dichiarò in un’intervista), riportiamo infine un aneddoto raccontato dall’amico e discepolo Andrea Camilleri. Una volta, l’Università di Messina voleva offrire a Sciascia la laurea honoris causa; ma lo scrittore, interdetto, si schermì: “…E perché? Già maestro sugnu”.

More Articles by the Same Author: