Cultura

L’italiano a Toronto,
una lingua scritta a casa

TORONTO – Qualche settimana fa, nell’articolo inaugurante questa nostra piccola serie sulla storia dell’italiano a Toronto, accennavo a come, negli ultimi decenni, sia stata semplificata l’immagine linguistica degli emigranti italiani a Toronto: considerati puramente dialettofoni, totalmente all’oscuro della propria lingua, si sarebbero inventati una parlata mista, in cui l’inglese era deformato e adattato alle competenze native. In realtà, al di là della poca affidabilità di certe teorie, come abbiamo visto in queste settimane, la comunità italiana aveva diverse possibilità di praticare e imparare l’idioma nazionale: lettura di giornali autoctoni, scuole locali, etc.

Ma cosa sappiamo della pratica personale, domestica, dell’italiano? I nostri compatrioti scrivevano a casa? E se sì, cosa scrivevano? Sicuramente, lontani e insediati in un nuovo mondo, dovevano scrivere delle lettere, per comunicare con i familiari e gli amici rimasti in patria. Probabilmente qualcuno doveva anche tenere un diario, un giornale intimo e (quasi) quotidiano: la nuova ed eccezionale esperienza stimolava alla registrazione, a forme di ricordo “storico” che andassero al di là della semplice fotografia.

I diari dell’emigrazione costituiscono un vero e proprio genere letterario; addirittura, esiste un Archivio diaristico nazionale nel comune di Pieve Santo Stefano (Emilia-Romagna); di recente, la collaborazione nata tra questo Archivio e il Ministero degli Affari Esteri ha dato luce a un ottimo sito web (I diari raccontano www.idiariraccontano.org) che mostra pagine e testi di questi diari, sparsi per il mondo. Persino a Toronto abbiamo avuto un immigrato che si è messo a raccontare la propria storia, in un italiano non impeccabile, ma in italiano, non in dialetto (o in “italiese”…); si tratta di Emilio Di Giuseppe che, dopo l’esperienza della prigionia nei campi di concentramento alleati in almeno tre continenti, negli anni Sessanta aveva deciso di iniziare per se e per la sua famiglia una nuova vita in Canada. La storia della sua prigionia e delle sue vicende personali, in Canada e in Italia, è stata pazientemente trascritta e raccolta dalla figlia Bruna Di Giuseppe Bertoni nel Diario di un Tufarolo (Toronto: Joie de Plume Books, 2018). Certo, da qualche parte, devono esserci altri diari, altri testi domestici da scoprire, in qualche cassetto, o in qualche vecchia scatola rimasta chiusa per troppo tempo…

E le lettere? Per gli emigrati negli Stati Uniti (e in altri paesi, meta dei flussi immigratori dal nostro paese) sappiamo che esistono quantità impressionanti di epistolari, alcuni raccolti e conservati in biblioteche o centri di studio (per esempio, presso l’Immigration History Research Center dell’Università del Minnesota), altri addirittura studiati e pubblicati in volume.

Non sappiamo molto, invece, su missive scritte dagli emigrati a Toronto: non esistono raccolte vere e proprie e tantomeno degli studi generali. Sicuramente, gli archivi cittadini e diocesani potrebbero permettere delle interessanti scoperte, come quella effettuata da Matteo Brera, ricercatore universitario e gran conoscitore della storia italo-canadese.

Brera di recente ha trovato, negli archivi della arcidiocesi, una lettera scritta nel 1934 da Giuseppe Circelli, immigrato pugliese a Toronto, indirizzata nientedimeno che a papa Pio XI. Giuseppe si rivolgeva al pontefice perché si riteneva vittima di un’ingiustizia: aveva reclamato a Padre Truffa, reggente filofascista della parrocchia di Sant’Agnese, un dipinto raffigurante San Rocco e realizzato anni prima dal fratello Antonio, pittore di una certa fama nella colonia italiana d’inizi Novecento. Giuseppe aveva prestato il quadro al religioso per usarlo durante le processioni in onore del santo, ma ora sperava di recuperarlo, fantasticando un guadagno grazie a un’eventuale vendita. L’opera del fratello, tuttavia, sembrava essersi volatilizzata: Padre Truffa, a male parole e a gestacci, cacciò il povero Giuseppe, il quale scoprì, grazie all’arcivescovado, che il dipinto era stato venduto a una ricchissima signora, Theresa Small, vedova dello scomparso impresario teatrale Ambrose. Il Circelli, senza altre soluzioni sottomano, aveva allora deciso di scrivere al Papa chiedendo giustizia; e, ci crediate o meno, la Santa Sede rispose e indagò. Il San Rocco non fu ritrovato, ma padre Truffa venne rimosso e poi riassegnato alla neonata parrocchia di Sudbury (più che per la vendita “truffaldina” per le sue simpatie politiche).

Non mi dilungo in questa curiosa storia che mescola immigrati italiani, un artista non eccelso, un prete truffatore, la scomparsa misteriosa di un miliardario (il marito della Small), il Papa e un dipinto mai ritrovato. Vi lascio alla lettura del saggio le cui indicazioni si trovano alla fine di questo articolo, ma anche al trafiletto che compare in questa stessa pagina del Corriere (qui:  https://www.corriere.ca/cultura-e-spettacoli/il-mistero-del-san-rocco-scomparso/).

A me basta dirvi che la prosa di Giuseppe Circelli, sebbene marcata da qualche concessione alle provenienze regionali e anche, ovviamente, all’inglese, è un italiano dignitoso, testimone del fatto che i nostri immigrati potevano produrre testi (lettere e diari, per esempio) dimostrando un buona padronanza grammaticale e lessicale: al loro dialetto e alle parlate regionali si affiancava, con diverse competenze, anche la lingua patria, letta nei giornali, forse imparata (o migliorata) in qualche scuola di quartiere o di parrocchia, e scritta tra le mura domestiche.

Matteo Brera e Franco Pierno, Una “rozza lettera” al Papa. La disputa di San Rocco e l’italiano dei semicolti nella Toronto degli anni Trenta”, in Italia, Italie. Studi in onore di Hermann Haller. Eds. D. D’Eugenio/A. Gelmi/D. Marcucci. Milano: Mimesis, 2021, pp. 119-140

Franco Pierno

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